Robert Schumann – Manfred, ouverture op. 115; Concerto in la minore per pianoforte e orchestra op. 54; Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore op. 38 (“”La Primavera””)

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Schumann, un ritratto in tre pose


L e musiche di Schumann per il dramma Manfred di George Byron furono composte nella seconda metà del 1848, subito dopo il completamento dell’opera Genoveva. Dirette da Franz Liszt furono ascoltate per la prima volta nel Teatro di Corte di Weimar il 13 giugno 1852, in forma scenica: ma fu Liszt stesso a consigliare al compositore, allora assente perché ammalato, di destinarle d’ora in poi alla sala da concerto. Schumann si era raccomandato che il suo lavoro venisse annunciato al pubblico «non come opera o Singspiel o melologo, bensì come “”poema drammatico con musica””»; gli sembrava che ne sarebbe uscito «qualcosa di completamente nuovo e mai udito». La denominazione di “”musiche di scena”” adottata in seguito gli andava evidentemente stretta; in principio intendeva sfruttare tutte le occasioni che il testo offriva in abbondanza, senza preoccuparsi di farle rientrare in uno specifico genere musicale.

La partitura consta di un’Ouverture e di quindici numeri divisi in tre parti. Accanto ai pezzi propriamente strumentali, come gli intermezzi, e ai cori, per lo più apparizioni di spiriti, vi prevale il melologo, cioè la recitazione accompagnata dalla musica, che in tedesco si chiama Melodram. E a parte poche scene dialogate si tratta esclusivamente di monologhi del protagonista, ossia di evocazioni: la forma è quella della declamazione poetica, cui lo sfondo musicale contribuisce a dare la massima intensità espressiva.

Schumann si era appassionato al Manfred già nella giovinezza, a diciott’anni, quando il poema di Byron rappresentava la quintessenza del romanticismo e il suo eroe, prototipo dell’uomo solitario segnato dal destino, era una figura conforme alla moda dei tempi: ciò gli aveva procurato “”notti orribili””. Solo più tardi, tuttavia, decise di ricavarne il soggetto di un nuovo progetto drammatico: quando gli avvenimenti storici, nel bel mezzo del 1848, l’anno della rivoluzione, spingevano drasticamente verso altri orizzonti, lontani da quelli del ribelle solitario. Più che la scelta stessa, è proprio il momento in cui essa avvenne a essere significativo: segno di una lacerazione col mondo esterno che premeva per rispecchiarsi in forma artistica, per ricomporre una scissione intimissima. Non più notti orribili, ma la chiara consapevolezza di passioni diurne e di un destino comune agli eroi nati, avrebbe detto Goethe, «per tormentare se stessi». Talento di cui Schumann avrebbe dato di lì a poco altre prove inequivocabili.

L’Ouverture è un gran pezzo sinfonico quasi a sé stante nell’economia del lavoro, per quanto i suoi elementi tematici ritornino variamente combinati anche in seguito. Dopo l’esposizione le figure tematiche s’intrecciano e s’incalzano in un anelito che non si prefigge una meta, ma sembra quasi elevare il conflitto a emblema di uno stato d’animo inesistente: dolore e angoscia che dopo essersi accumulati si dissolvono nel nulla, spegnendosi con un brivido di rinuncia nell’annientamento della volontà. Pochi gesti come le ultime, trasognate battute della coda (Langsam, lento) rappresentano in modo altrettanto inatteso e rassegnato la nostalgia di una pienezza perduta.

 

 

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«Quanto al concerto, ti ho già detto che si tratta di un qualcosa a metà tra sinfonia, concerto e grande sonata. Mi rendo conto che non posso scrivere un concerto da “”virtuoso”” e che devo mirare a qualcos’altro». Questo brano di una lettera del 1839 a Clara Wieck testimonia quali fossero le intenzioni del compositore nei riguardi di un’idea (un “”grande”” concerto per pianoforte e orchestra) che già da qualche tempo lo attraeva. Pur giunto alla piena maturità, dopo prove sensazionali nel trattamento del pianoforte, Schumann esitò a lungo prima di dare corso al suo progetto; tanto che per scrivere quello che sarebbe diventato uno dei più celebri Concerti di tutto l’Ottocento gli sarebbero occorsi ben cinque anni: dal 1841, anno a cui risale il primo movimento, al 1845, per il secondo e il terzo.

In origine l’Allegro affettuoso, scritto nel 1841 per Clara, doveva costituire una Fantasia per pianoforte e orchestra in un unico movimento. Il 1841 è anche l’anno dell’esordio orchestrale di Schumann, con la Prima Sinfonia: ed è pacifico che le due opere, accomunate da problemi formali che fino a quel momento Schumann aveva evitato di affrontare, si influenzarono a vicenda anzitutto nel modo di risolvere i nuovi compiti posti dall’orchestra. Nella Prima Sinfonia la soluzione è data dal ricorso a una traccia programmatica di tipo descrittivo, poi abbandonata; nel Concerto invece da un uso del pianoforte che, se da un lato lascia al solista la possibilità di sviluppare la ricchezza del suo strumento, dall’altro impone all’orchestra – giusta l’indicazione di “”mirare a qualcos’altro”” – una grande varietà di caratteri e una parte più importante di quella del semplice “”spettatore””.

Il Concerto in la minore è una delle opere più dense di Schumann, il tentativo più ardito di fondere in una singola composizione tutte le suggestioni e le ansie espressive che lo assillavano di fronte a una creazione di vaste proporzioni. La caratteristica di “”unicum”” che il Concerto riveste nella letteratura del suo genere è programmatica, e deriva in gran parte proprio da questo accavallarsi di intenzioni che ne permea la struttura e ne esaspera le tensioni, quasi evitando una risoluzione meramente formale. Recensendo nel 1839 il Concerto op. 40 di Mendelssohn sulla “”Neue Zeitschrift für Musik”” Schumann aveva scritto: «Dobbiamo aspettare di buon grado il genio che ci mostri in modo brillante come si possa unire l’orchestra al pianoforte». E sottintendeva qualcosa di diverso dai modelli tradizionali.

Lo avrebbe dimostrato lui stesso nel Concerto.

La scrittura pianistica, per esempio, che in un virtuosismo ad alta definizione amplifica le possibilità

tecniche e strumentali già inventate e utilizzate prima, tende ad accentrare su di sé il peso del dialogo con l’orchestra e, se mai, a distenderlo periodicamente in rarefatti equilibri, nello spirito di una feconda, reciproca libertà. D’altra parte tutto il Concerto è anche dominato da un calore che ci rimanda allo stile dello Schumann più estroverso, in un impeto appassionato che si dispone, in sbalzi vertiginosi di umori, su una vasta gamma di gradazioni, e che non è certo alieno da svagati ripiegamenti lirici e da assorte sospensioni poetiche.

Il primo movimento, Allegro affettuoso, si apre, dopo la strappata di tutta l’orchestra, con una scrosciante cascata di accordi del pianoforte solo: un gesto imperioso che sembra voler concentrare subito su di sé il carico di una brillante presentazione. Ma non è sulla via della contrapposizione tra pianoforte e orchestra che si svilupperà il percorso del Concerto. Anche sul piano formale, il secondo tema deriva dal primo, e ne è per così dire uno svolgimento governato dall’alternanza fra modo minore e relativo maggiore. Questo monotematismo latente nella differenziazione impedisce una vera e propria sezione centrale di sviluppo basata sul contrasto e tende a configurare invece, in un gioco di mutamenti e scambi fra solista e orchestra, un processo di elaborazione simile a quello delle variazioni. Nel bel mezzo di questo processo s’inserisce una sorta di “”Intermezzo”” in tempo Andante espressivo e nella tonalità di la bemolle maggiore, nel quale si reinnesta il dialogo fra pianoforte e orchestra, particolarmente con i due flauti e il clarinetto; generalmente il pianoforte accompagna l’arco melodico con arpeggi, secondo una tecnica che conferisce all’insieme una continua mutevolezza di armonie e di colori. Bruscamente le ottave del solista riportano al tempo e alla tonalità iniziali, cui seguono la ripresa (più animato, passionato), una estesa cadenza interamente scritta e una coda (Allegro molto) nuovamente basata sull’idea primaria. Il fatto che questo movimento fosse stato in origine concepito nel carattere di una Fantasia spiega il suo svolgimento formale in senso chiaramente ciclico.

L’Intermezzo, (Andantino grazioso), in fa maggiore, è avvolto in un’atmosfera di delicata intimità, Mn cui il pianoforte si sprofonda dialogando sommessamente con l’orchestra. Quando dai violoncelii si innalza un canto spiegato che a poco a poco si propaga a tutta l’orchestra, il pianoforte da solo si sottrae a questa nuova idea tematica, quasi proseguendo a parte un suo corso di pensieri. Ed è proprio il pianoforte che conduce, attraverso un passaggio di straordinaria suggestione armonica e timbrica, all’ultimo tempo, Allegro vivace, che presenta un materiale tematico affine a quello del primo. Qui viene però presentato un secondo soggetto di-stinto, e una grande varietà ritmica lo contraddistingue nei suoi sviluppi. Il Concerto si conclude :on audaci figure del pianoforte, che nella coda finale può ora slanciarsi liberamente a toccare tra-guardi anche schiettamente virtuosistici, assecondato dall’orchestra.

Il Concerto fu eseguito per la prima volta da Clara Wieck a Dresda il 4 dicembre 1845, sotto la direzione di Ferdinand Hiller.

 

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Quando all’età di trentun anni prese la decisione quasi eroica di accantonare per qualche tempo il pianoforte e il Lied per dedicarsi alla composizione di una Sinfonia, Schumann si trovò a fare un rapido ma pesante bilancio. Alle sue spalle stava il modello gigantesco e inimitabile di Beethoven, le cui granitiche certezze avevano pur sempre fatto trionfare la solidità della forma, per quanto sconvolta e scossa dall’urto di contrasti talvolta durissimi; più vicine nel tempo ma ugualmente a lui in parte estranee erano le strade percorse da Schubert e da Mendelssohn, l’una dilatata e costellata di segnali elusivi, l’altra fin troppo lineare, levigata e cesellata nei particolari. Se Schubert era riuscito a raggiungere con la sua “”Grande Sinfonia”” la completa indipendenza da Beethoven e a creare una nuova dimensione del tempo e dello spazio musicale, la cui eccelsa originalità proprio Schumann per primo aveva compreso e affermato, Mendelssohn rappresentava la misura composta, la serena contemplazione di paesaggi decantati dal sentimento; valori luminosi che Schumann ammirava ma non possedeva.

L’inizio di quella svolta stilistica che con la Prima Sinfonia avrebbe condotto il compositore a

un’attenzione sempre maggiore per le forme classiche sembra perseguire anzitutto l’ideale di una intuizione unitaria del processo sinfonico, che si presenta apertamente sperimentale e percorso da aneliti e slanci che non annullano ma riplasmano gli schemi della tradizione, assumendo un colore specifico, una timbratura esemplarmente romantica. Il supporto programmatico previsto all’origine (una poesia dedicata alla primavera di Adolph Böttger) viene abbandonato nel momento stesso in cui i riferimenti extramusicali si chiariscono in elementi compositivi; quel che rimane da ultimo è la disposizione ciclica adombrata dal programma, divenuta  materia intrinseca alla musica: l’immagine della primavera che fiorisce nelle sue manifestazioni vitali, risvegliando i sensi ma soprattutto affilando nella traduzione sonora la tensione costruttiva e la logica formale.

D’altro canto è proprio nel tema, “”anima”” della musica romantica, che si rende evidente la distanza di Schumann sinfonista da Beethoven. Esso non è più, come in Beethoven, sviluppo di un’idea originaria che si realizza per mezzo della dialettica dei contrasti bensì invece illuminazione sempre variata di una figura fondamentale, quasi motto della composizione. Al contrasto tematico, caratteristico della forma sonatistica classica, si sostituisce dunque la tecnica della ripetizione monotematica, che porta con sé un procedimento ciclico, fatto di ritorni nei quali le trasformazioni si generano l’una dall’altra, senza contrapporsi, in un fiorire di divagazioni fantastiche. E la successione di questi impulsi, articolati nei canonici quattro movimenti, dà il senso unitario alla Sinfonia. Ogni movimento è collegato agli altri da relazioni ora nascoste ora espressamente sottolineate, come tra il secondo, Larghetto, e lo Scherzo (Molto vivace); all’espansione progressiva dell’Allegro molto vivace iniziale fa riscontro la vivace energia ritmica del Finale (Allegro animato e grazioso), estrema applicazione al ritmo dell’idea monotematica. La quale deriva fondamentalmente dall’Introduzione lenta (Andante un poco maestoso), dove assume la forma di un solenne corale irrobustito da corni e trombe; l’appello al “”risveglio della primavera”” si materializza qui nell’idea-guida dell’intera composizione, mutandosi da simbolo poetico in concreta figura individuale capace di tesserne la trama e di realizzare quel che prima era soltanto implicito: una rete di relazioni e di citazioni che si affacciano nel libero volo della fantasia.

Composta in soli quattro giorni come frutto di “”ore ardenti”” nel gennaio 1841, la Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore op. 38, conosciuta universalmente come “”La Primavera””, fu eseguita per la prima volta il 31 marzo dello stesso anno al Gewandhaus di Lipsia sotto la direzione di Mendelssohn.

Daniele Gatti / Maria Tipo, Orchestra dell’Accademia Musicale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1992-93

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