Robert Schumann – Fantasia op. 17

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Sembra che la forma abbia concluso il suo ciclo vitale, e questo è nell’ordine delle cose; perciò non dovremmo ripetere per secoli sempre le stesse cose, ma mirare anche al nuovo. Si scrivano dunque sonate o fantasie (che importa il nome), ma non si dimentichi la musica, e il resto imploratelo al vostro buon genio””. Schumann scrisse queste parole nel 1839, anno nel quale terminò le tre Sonate per pianoforte e pubblicò, con il titolo “”Fantasie pour le Pianoforte”” e la dedica a Franz Liszt, la Fantasia in do maggiore op. 17. La sua origine è legata a un avveninmento esterno. Quando nel 1835 fu diramato l’invito a inviare offerte musicali per la costruzione dii un monumento di Beethoven a Bonn, Schumann pensò di contribuire con una grande Sonata per pianoforte in tre movimenti intitolati “”Ruinen. Trophaeen, Palmen””, in cui figurassero citazioni di Beethoven. Il pezzo, abbozzato fin nei dettagli, nel giugno del 1836, fu portato a termine soltanto nel 1838. Nel frattempo il compositore si arrovellava sul problema del titolo: quello di Fantasia gli sembrava più adatto di Sonata ma non intendeva, come consigliava il suo editore, rinunciare ai sottotitoli, ora trasformati in “”Rovine, Arco di trionfo e Costellazione””. Solo al momento della pubblicazione i sottotitoli scomparvero e il riferimento a Beethoven si ridusse alla sola citazione dell’ultimo lied del ciclo An die ferne Geliebte: segreta allusione all’amore per Clara Wieck, in uno dei periodi più contrastati e infelici della loro relazione. In loro sostituzione Schumann optò per un motto poetico posto in epugrafe all’inizio dell’opera, gli ultimi quattro versi della poesia Die Gebüsche (“I cespugli”) di Friedrich Schlegel: “”Risuona, fra tutti i suoni / nel variopinto sogno terrestre / un tenue suono tenuto / per colui che ascolta segretamente””. Sonata o fantasia, Beethoven o Clara, quel che colpisce a ogni ascolto di un capolavoro assai noto come la Fantasia op. 17 è la capacità di articolare il discorso con una chiarezza lucidamente visionario, stabilendo a ogni istante il punto di arrivo di una molteplicità di avvii, accenni, allusioni, riferimenti, associazioni, che percorrono l’opera sciogliendosi in musica: sotto questo aspetto, il passo schumanniano citato all’inizio è ben più di una dichiarazioni d’intenti e si traduce in una esibizione addirittura esemplare di virtuosismo, energia e libertà creativa. E’ come se la musica, superando i concetti della teoria delle forme che si erano sviluppati per fissarne le coordinate, volesse ritornare alle sue origini primordiali ed elevarsi indipendentemente al discorso libero da ogni costrizione, verso una visione poetica di indefinita vastità. Da questo punto di vista l’indicazione che compare all’inizio (“Da eseguirsi in modo assolutamente fantastico e appassionato”) è programmatica, non meno di quel “”tono dì leggenda”” prescritto nell’episodio centrale del primo movimento: termini che nella loro apparente vaghezza costituiscono insieme una premessa e uno svolgimento che dal primo movimento si protende anche verso gli altri due, l’uno energico col suo ritmo di marcia, l’altro intensamente lirico e interiorizzato, racchiudendo tutto un mondo.

Maurizio Pollini
Ravenna Festival 1996

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