La produzione per coro, con o senza accompagnamento strumentale, costituisce quasi un capitolo a sé nell’opera creativa di Schumann. Questo capitolo è assai importante sotto diversi riguardi, sia psicologici sia artistici, sebbene rimanga marginalmente esplorato e, soprattutto in Italia, rarissimamente offerto all’ascolto: in esso Schumann ha racchiuso alcune delle sue più alte, impegnate aspirazioni, raggiungendo soventemente momenti di commossa poesia e di autentica originalità musicale. Si tratta peraltro, nel suo complesso, di un panorama sí d’autore ma quant’altri mai eterogeneo e disuguale, segnato da impennate brusche e da ardite sperimentazioni non meno che da inevitabili compromessi con le contingenze occasionali e con le inadeguatezze degli esecutori, per lo più dilettanti; condizionato da intenti pedagogici tanto quanto incentivato dalle molteplici possibilità consentite dall’uso del coro (a voci pari, a voci miste, in doppio coro, con aggiunta di solisti), sia da solo che accompagnato da singoli strumenti o dall’orchestra.
Si va così dalle semplici, ma non per questo meno caratteristiche canzoni composte solo per arricchire il repertorio delle società corali tedesche, alla cui diffusione Schumann si prestò con encomiabile passione anche negli anni della maturità, fino ai vasti oratori temporali (ossia profani) destinati alla celebrazione di ideali romantici e spirituali; dove la componente fiabesca, tra simbologie e allegorie intensamente poetiche, si carica di tale urgenza espressiva che par quasi voglia attingere le soglie del monumentale, del grandioso, del sublime: per farsi da ultimo dimostrativa e formativa. Fra i primi possiamo ricordare i 6 Lieder per coro maschile op. 33, i 5 Lieder per coro misto op. 55, i 4 Gesänge per coro misto op. 59, i 3 Lieder per coro d’uomini op. 62, le quattro serie di Romanze e Ballate per coro misto op. 67, 75, 145 e 146 e infine i possenti 4 Gesänge per doppio coro op. 141. In queste pagine, troppo disinvoltamente definite d’occasione, i cui accenti variano dal fresco tono popolare all’aspra sprezzatura drammatica, si dispiegano in una gamma straordinariamente ampia le inquietudini di un lirismo sempre teso a interrogarsi sulla sua illusoria destinazione. Quando poi alle voci si uniscono gli strumenti, come nei bellissimi Jagdlieder (Canzoni di caccia) op. 137 per coro maschile e quattro corni ad libitum, il clima espressivo si fa più variegato, la scrittura più densa, la ricerca musicale più incisiva e audace, attenta a ricreare suggestivi paralleli, fra i suoni della natura e le risonanze interiori dell’anima. Un posto a sé hanno le opere vocali accompagnate dal pianoforte, quasi tutte per voci femminili (vi eccellono i delicati poemetti dello Spanisches Liederspiel op. 74, composti nel 1849): composizioni che inquadrandosi nella più illustre tradizione germanica, tra Schubert e i tardi capolavori brahmsiani e wolfiani, spargono una luce inconfondibile di intimismo e nostalgia nei chiaroscurati paesaggi della visionarietà romantica.
Da questo humus, per Schumann terreno di formazione tecnica non meno che di approfondimenti culturali, nascono per estensione due oratori profani “”per gente lieta””, legati da neppur troppo sotterranee affinità: Das Paradies und die Peri (Il Paradiso e la Peri) e Der Rose Pilgerfahrt (Il pellegrinaggio della rosa). Gli anni che li separano – dal 1843 al 1851 – sono stracolmi di nuove
esperienze e di rinnovata dedizione alla causa della musica romantica tedesca, ora sostenuta da Schumann, dopo le battaglie degli anni ruggenti, non solo come coscienza artistica ma anche come movimento capace di connotare l’arte di valori etici e umanistici. Dopo il fallimento della rivoluzione, la sua concezione del mondo sembrò da un lato oscurarsi in un individualismo portato all’estremo e minacciato da una sempre più cupa solitudine, che sfocierà di lì a poco nel Manfred byroniano, dall’altro concentrarsi nell’utopia missionaria dell’artista inteso come guida spirituale del popolo: di un popolo disorientato, ormai deluso da ogni altra prospettiva. Gli anni di Düsseldorf, città nella quale Schumann sperava di compiere quella riforma della vita musicale a cui aveva sempre guardato, segnano in entrambi i campi un periodo di straordinario fervore e attivismo, nonostante l’insorgere di sempre più frequenti crisi nervose. Tra la creazione individualisticamente esercitata, cui lo spingeva un’ansia quasi febbrile, e il lavoro rivolto alla direzione dell’orchestra sinfonica, alla società corale e a quella di musica da camera, si fece strada a poco a poco, per l’ultima volta, l’idea di una sintesi conciliante e purificatrice che riassumesse e filtrasse attraverso le nuove esperienze una visione più largamente comunicativa e simbolica della musica: il progetto di un grande oratorio basato sulla figura di Martin Lutero, col quale poter realizzare «qualcosa di popolare, di comprensibile a tutti, cittadini e contadini, qualcosa che corrispondesse al carattere stesso del protagonista che era un grande popolano», sfumò per contrasti con il librettista (il giovane letterato e musicista Richard Pohl) e lasciò spazio, mutando la prospettiva, alla fiaba allegorica della rosa pellegrina.
Questo cambiamento di prospettiva non fu naturalmente involontario. La fiaba Der Rose Pilgerfahrt del giovane poeta dilettante Moritz Horn (nella vita cancelliere del tribunale di Chemnitz) è l’esatto contrario di un’opera nazionale e monumentale quale risultava dall’impostazione del progetto su Lutero: la sua dimensione è piuttosto quella della letteratura famigliare di tono borghese e a sfondo edificante, tutt’altro che disprezzabile nei suoi profili tersi, che ricordano per analogia le piccole tele dei pittori romantici di quegli anni. Quando nell’aprile del 1851 Horn inviò il poemetto a Schumann, questi fu subito colpito più che dalla qualità letteraria del testo (prudentemente chiese a Horn di affinare la penna lavorando intanto alla ballata di Uhland Der Königssohn, che intendeva musicare e che difatti musicò subito dopo) dal tema che vi era svolto: la storia di una rosa che con la sua preghiera ottiene dalla principessa degli elfi di essere trasformata in una fanciulla e che, dopo aver sposato un garzone mugnaio tedesco, muore di parto e trova fine al suo pellegrinaggio tra gli angeli. Del tema nel suo complesso, nella forma e nell’espressione assai vicino alla Peri, lo attirava soprattutto l’idea “”poetica”” dell’anelito della rosa (simbolo di purezza) all’esistenza umana (meglio se sanamente tedesca, paesana, nient’affatto una diminutio bensì un’incarnazione dello spirito nella tradizione del popolo) e di qui a quella angelica: idea che ben corrispondeva al principio della trasformazione e dell’elevazione di un essere elementare verso una sfera superiore, al quale Schumann era sinceramente affezionato nei suoi risvolti sia terreni che celesti. Il motivo della redenzione, che Richard Wagner poeta e musicista aveva inabissato fino alle radici dell’inconscio nelle profondità del mito, si riduce, è vero, ad allegoria fiabesca, ma riceve dalla musica un palpitante accento di verità, come se a contare tosse appunto il motivo poetico in sé, allegoria di un’allegoria, e lo svolgimento ne indicasse continuamente, sull’ala dei suoni, religiosamente, più intimi significati. Ciò l’innalza ben oltre quel tono ingenuamente popolaresco che Schumann s’ostinava a vagheggiare, salvo poi tradurlo in senso aristocratico e “”alto””, e l’allontana, a ben guardare e sentire, da troppo superficiali riferimenti a un romanticismo sentimentale di tipo Biedermeier.
Neppure la circostanza che in un primo tempo la composizione fosse prevista per un ristretto gruppo corale con accompagnamento di pianoforte (terminata in questa forma 1’11 maggio 1851, venne eseguita privatamente, nella stessa casa di Schumann, il 6 luglio) e che solo in un secondo tempo venisse orchestrata (tra novembre e il febbraio 1852) e destinata alla sala da concerto, autorizza a ritenere che l’idea del grande oratorio si acquietasse nelle rassicuranti pareti domestiche del salotto borghese. Vero è che nel frontespizio la parola “”oratorio”” non compare, e al suo posto figura il termine “”fiaba””, sotto una vignetta della più ingenua oleografia popolare. Ma l’impianto generale, articolato in due parti e ventiquattro numeri, è decisamente di spessore sinfonico-corale, perfino nella leggerezza mendelssohniana di elfi e angeli, nella grazia degli intrecci tra le voci (basti l’inizio con quel canone di mozartiana gioiosità); e l’apporto della musica, anche quando si dedica a una serie di quadri intimi di formato ridotto, spesso insistendo sui dettagli del testo, è trasfigurante, estatico e sognante.
Nell’intenso quadro creativo dell’ultimo Schumann, dominato significativamente dal gusto raffinatissimo per una coralità semplice e suasiva, affidata allo slancio del ritmo e alla sinuosità della melodia più che alle complicazioni degli artifici contrappuntistici, questa partitura rappresenta lo sforzo ambizioso di coniugare saggezza popolare e beati stupori, forma classica e colore romantico, voci della natura e paesaggi incantati, connotati nazionali rifioriti nella trasparenza immaginativa della fiaba e simboli aurorali, luci soprannaturali e suoni mistici: con una fragranza amabile e perfino ironica, ora seria e ammiccante, limpidamente comunicativa ma continuamente tesa a penetrare il mistero di echi e sussurri di un miraggio infinito. Attraverso un pellegrinaggio, senza dolore e tormento, laicamente religioso ed essenzialmente spirituale, illuminato d’immenso.
Christian Thielemann, Norbert Balatsch / Margaret Marshall, Iride Martinez, Annette Küttenbaum, Thomas Sunnegårdh, Roland Bracht, Danilo Serraiocco
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1994-95