Rober Schumann – Messa in do minore, per soli, coro e orchestra op. 147

R

Negli ultimi anni della sua vita trascorsi a Düsseldorf, a partire dal 1850, Schumann sentì il bisogno di dedicarsi a composizioni che, rivolgendosi al grande pubblico, avessero una funzione didattica e pedagogica, di guida morale e spirituale. Se tale obiettivo era stato al vertice dei suoi interessi anche nei tumultuosi anni giovanili, nella fase della maturità la prospettiva si trasformò sensibilmente nelle intenzioni, abbandonando l’individualismo di chiara marca rivoluzionaria e romantica per accostarsi a un tipo di religiosità più attiva e partecipe, elevata e nello stesso tempo radicata nelle tradizioni popolari.

Non erano soltanto i compiti connessi all’incarico che Schumann ricopriva a Düsseldorf, quello di direttore generale della musica, a spingerlo in questa direzione. Giacché se è vero che quei compiti consistevano – oltre che nella organizzazione e nella direzione di un’orchestra professionale e di una Società corale di dilettanti – anche nell’obbligo di due o tre esecuzioni musicali di rilievo all’anno per il servizio religioso cattolico, altrettanto vero è che Schumann aveva accettato con entusiasmo quell’incarico proprio perché esso corrispondeva pienamente a una esigenza fortemente sentita. In una lettera del gennaio 1851 al suo ammiratore di Oldenburg August Strackerjan egli scriveva: «Impegnare le proprie forze per la musica sacra rimane l’obiettivo più alto dell’artista. Ma in gioventù siamo tutti ancora troppo radicati nella terra, con le sue gioie e i suoi dolori; con l’avanzare dell’età, anche i rami tendono a elevarsi. E, come spero, questa età non sarà più troppo lontana per quel aspiro a fare».

Secondo la concezione di Schumann la musica sacra doveva essere ispirata da un «sentimento bello, poetico e veramente religioso nella sua totalità». Ciò non escludeva, anzi al contrario richiedeva, che la musica di chiesa venisse pensata anche per la sala da concerto, in una visione dell’arte come religione e della religione come arte. Allo stile di chiesa si addicevano ancora «forme artificiose» come il canone e la fuga; ma al tempo stesso occorreva che perfino dalle costruzioni più abilmente intrecciate trasparisse «una segreta melodia». E non gli mancavano i modelli a questo proposito. Oltre alla musica sacra di Haydn e Mozart, Schumann conosceva a fondo la Missa solemnis di Beethoven e con il suo coro di Düsseldorf aveva preparato la Messa in si minore di Bach. Fin dal 1835 gli era nota l’esistenza di cinque Messe di Schubert, sebbene nessuna fosse stata pubblicata prima della sua morte; tra i Requiem apprezzava particolarmente, per il suo rigore, quello in do minore, del 1816, di Cherubini; mentre il monumentale Requiem di Berlioz, del 1837, lo aveva lasciato atterrito e impressionato. Da tutte queste esperienze Schumann fu fortificato a cercare la propria strada nell’ambito della musica sacra, quasi sdoppiandosi nella composizione successiva, a brevissima distanza, di una Messa e di un Requiem.

Questi due lavori legati alla liturgia cattolica, nati rispettivamente tra il febbraio-marzo e l’aprile-maggio del 1852, sono gli ultimi due a recare un numero d’opera nel catalogo di Schumann (op. 147 e op. 148). Tale circostanza, ancor più avvalorata dalla dichiarazione di Schumann secondo cui un Requiem lo si scrive solo «per se stessi», accresce inevitabilmente il significato simbolico dell’opera come testimonianza estrema dell’arte creativa di Schumann in rapporto alla vita, che di lì a poco gli sarebbe letteralmente sfuggita dalle mani. Essa non deve tuttavia venir troppo enfatizzata; Schumann non intese affatto affidare al suo Requiem l’ultima parola, né congedarsi drammaticamente con esso dal mondo. Al contrario, la sua aspirazione era innanzi tutto di rinnovare la tradizione della musica sacra, coniugando la semplicità e la purezza di un autentico sentimento religioso, oggettivato in forme austere, con la necessità di far parlare l’antico spirito cristiano in un linguaggio musicale adatto ai tempi, e dunque tanto personale quanto consapevole dei riferimenti che vi erano implicati. Da questo punto di vista sia la Messa che il Requiem sono frutti maturi di un magistero compositivo interamente ripensato ed esercitato per estendere la «religione dell’arte» dalle forme specifiche della musica sacra alla sala da concerto, al di là di una destinazione puramente liturgica. A un anno di distanza dall’esecuzione, sempre con i complessi di Santa Cecilia e sotto la guida prestigiosa di Wolfgang Sawallisch, del Requiem, ci viene ora offerta la preziosa occasione di ascoltare la Messa, le cui apparizioni sono ancora più rare.

Basti pensare che Schumann non ebbe mai occasione di udirla per intero durante la sua vita e che la prima esecuzione integrale ebbe luogo solo nel 1861 ad Aquisgrana sotto la direzione di Franz Wiilner. In quell’occasione Clara Schumann, nonostante il giudizio poco lusinghiero di Brahms, diede il suo assenso per la pubblicazione, che avvenne l’anno successivo a Lipsia.

Nel porre in musica il testo latino della Messa Schumann si attenne a una concezione sinfonico – corale di proporzioni ampie ma non monumentali. L’organico orchestrale è quello delle Sinfonie, con legni e fiati a due e tre tromboni, a cui va aggiunto l’organo. Il coro è a quattro parti ed è impiegato sovente in una scrittura omofonica densa e compatta, quasi chiusa in se stessa, progressivamente ampliata in passaggi imitativi e fugati, fino al culmine delle due fughe del “”Sanctus””,1’””Hosanna”” prima e 1’””Amen”” poi. Il carattere generale rimane però orientato in senso intimo e raccolto, quasi introverso e malinconico, se non lugubre. A parte la scelta della tonalità d’impianto, do minore, inusuale per una Messa, a predominare sono i tempi lenti, moderati perfino nelle sezioni più ricche di testo, come il “”Gloria”” e il “”Credo””. I solisti, che sono soltanto tre contro i consueti quattro – soprano, tenore e basso, senza contralto – non hanno molto spazio per i loro interventi: esclusi all’inizio, al centro e alla fine – “”Kyrie””, “”Credo”” e Agnus Dei”” sono qui sezioni puramente corali -, rimangono di supporto al coro anche nel “”Gloria”” e nel “”Sanctus””. Solo 1′””Offertorium”” aggiunto all’ordinario della Messa ho uno spiccato rilievo solistico, con il canto del soprano solo accompagnato dall’organo e dal violoncello obbligato. Il testo di questo delicatissimo momento di sospensione e di contemplazione all’interno della Messa, “”Tota pulchra es, Maria””, sembra indicare che la composizione fosse destinata a una festa mariana: vi si rilevano però evidenti parentele tematiche e d’atmosfera con l’ultima parte delle Scene dal Faust, quasi che Schumann saldasse l’elemento laico e quello religioso in un’unica visione spirituale di assorta decantazione.

La Messa ha inizio con una breve introduzione orchestrale assai frastagliata, tipica dello stile dell’ultimo Schumann: una fascia continua degli archi tesa ad abolire la divisione in battute è arricchita dagli interventi dei fiati, come un disegno dai colori. Tutto si svolge in “”pianissimo”” e nel tempo Ziemlich langsam, piuttosto adagio. L’ambiguità armonica si mantiene ben oltre la prima entrata del coro: solo alla ripresa del “”Kyrie”” dopo il “”Christe”” si afferma decisamente la tonalità di do minore, con una veemente impennata verso il “”forte”” che non manca di effetto drammatico. Da questo culmine si ridiscende subito al clima iniziale, come in una velata dissolvenza che conferma quell’attitudine all’introspezione e al ripiegamento che sarà un tratto distintivo di tutta l’opera.

Il “”Gloria”” attacca in do maggiore, a piena orchestra e in tempo Lebhaft, nicht zu schnell, vivace ma non troppo. Ora tocca ai fiati tenere le fasce con note lunghe e incisivamente scandite, secondo stilemi abbastanza consueti, mentre gli archi ondeggiano in impetuosi tremoli alternati a ritmi puntati. L’immagine della gloria di Dio nell’alto dei cieli non sembra scuotere molto Schumann: l’aspetto convenzionale della visione non è neppure troppo mascherato dalla scrittura. L’ispirazione si vivacizza invece quando ad essa si contrappone l’invocazione alla pace sulla terra per gli uomini di buona volontà: un violoncello solo disegna un’ampia frase di cantabilità prettamente strumentale che si estende prima alle viole poi ai violini. Il coro risponde con sommessa partecipazione. Non a lui è destinato questo spunto, bensì alla voce del soprano solo che lo riprende e lo sviluppa nel “”Gratias agimus tibi””. Da questo momento Schumann abbandona ogni convenzione e sembra meditare più a fondo anche sulle implicazioni suggerite dal testo. Il tempo si fa “”più lento”” e pensoso nel “”Domine Deus””, appello in la minore rafforzato dal sostegno dei tromboni; al coro prima diviso in voci pari si aggiungono i solisti, par riunirsi da ultimo nella richiesta di pietà all’Agnello di Dio: un momento di verità e di coinvolgimento profondo che innalza la temperatura

espressiva della musica, soprattutto nel grado di concentrazione armonica prima dell’approdo a fa maggiore.

Di lì una semplice cadenza perfetta riconduce a do maggiore, per la conclusione non del tutto scontata del “”Gloria””: i conati di fuga accademica sono infatti soffocati sul nascere, sia nel “”Cum sancto spiritu”” sia nell'””Amen””, dal ritorno di interrogativi dubbiosi, di sforzati adempimenti all’imperativo categorico della certezza nella fede.

Il “”Credo”” è, per i cristiani, il simbolo di questa fede. Ma Schumann sembra prendere le distanze da una interpretazione meramente confessionale di questo luogo centrale della Messa. La scelta della tonalità, mi bemolle maggiore, rimanda al solenne cerimoniale del Finale della “”Renana””, come il tempo Massig bewegt, moderatamente mosso. La misura di battuta in tre mezzi sembra ispirata

anche alle antiche consuetudini della polifonia vocale, così come il trattamento del coro, nel quale traspaiono reminiscenze dello stile palestriniano, con un che di arcaizzante. L’andamento è solido e conciso oltre che solenne, guidato da una condotta delle parti equilibrata tra contrappunto imitativo e omofonica compattezza. La componente figurativa è presente nella descrizione della discesa di Cristo sulla terra e nella rievocazione della sua morte: le linee vocali scendono sempre più al grave

accompagnate da una sequenza cromatica a mo’ di ostinato che si inabissa anch’essa sempre più giù. La parola “”passus”” è intonata da tutte le voci con un salto discendente di settima; su “”et sepultus est”” si produce un effetto modulante di misteriosa attesa, mentre le voci continuano a procedere all’unisono. Lo scatto di “”Et resurrexit”” è imperioso, sottolineato anche dall’improvviso cambiamento di tempo e dalla simmetrica progressione cromatica, questa volta ascendente, del coro. Il ritorno del tempo iniziale alla ripresa del “”Credo”” è confermato anche tematicamente, ma in un processo modulante che arricchisce e sviluppa, questa volta astraendosi da un riferimento preciso al testo, gli elementi presentati in precedenza: si fa ora più chiara la relazione omogenea che li legava fin dal principio a una concezione unitaria delle figure e delle loro concatenazioni. Alla fine di questo circolo il saldo riapprodo a mi bemolle maggiore sanziona nello slancio più mosso del fugato conclusivo il significato della combinazione tra il tema del “”Credo”” e quello da esso derivato di “”et vitam venturi saeculi””.

Privo di indicazione di tempo – come se al tempo stabilito della Messa si sottraesse – e impiantato nella tonalità di la bemolle maggiore, 1″”`Offertorium”” è pagina di levità soprannaturale, degna delle ultime illuminazioni schumanniane. Accompagnato come si è detto solo dall’organo e dal violoncello obbligato (ma con la possibilità di sostituirli eventualmente con un quartetto d’archi con sordina), il canto del soprano solista si muove ariosamente tra intervalli ora ampi ora congiunti, con una compostezza che non intacca minimamente la profondità dell’espressione. Non di un Lied si tratta, ma di una preghiera assorta che si rivolge con una suggestione emotiva tanto intensa quanto pudica a Colei nella quale “”macula non est””, per chiederne l’intercessione e la grazia. Si conferma così che la religiosità di Schumann, anche in quest’opera liturgica, ha tratti umani assai fini, personali e sensibili, gli stessi che avevano ispirato opere come Il pellegrinaggio della rosa e Il Paradiso e la Peri.

La tonalità di la bemolle maggiore si prolunga anche nel “”Sanctus””, un Adagio con lunghe note tenute in “”pianissimo””, quasi immateriale nella sua calma, lineare immobilità (solo violoncelli e violini all’unisono articolano una breve sequenza circolare più sciolta). Il giubilo del “”Pieni sunt coeli”” erompe quasi inatteso a piena voce, “”forte”” e “”vivace””, in mi bemolle maggiore con un potente contrasto, e conduce al fugato dell””`Hosanna in excelsis Deo””, mosso e slanciato nel suo ritmo ternario. Una fanfara della tromba all’unisono con i soprani segna il passaggio al “”Benedictus””, affidato al tenore solo in canto alternato con le voci femminili del coro: la solennità del momento è resa non soltanto con la rarefazione dell’accompagnamento orchestrale ma anche con una particolare sospensione armonica di sapore quasi arcaico, su cui il canto si muove con delicata leggerezza. L’episodio che segue, “”O salutaris hostia””, si compone di una esposizione del basso solo ripresa dal coro a voci piene in forma di corale; una intensificazione drammatica sulla visione delle guerre che incombono minacciando la forza dell’uomo che chiede aiuto segna l’acme dello sviluppo: la ripetizione del “”Sanctus”” iniziale riporta la tranquillità, per innalzarsi nella definitiva liberazione della fuga conclusiva sull'””Amen””. Non solo per la sfumatura dei contrasti e delle loro elaborazioni ma anche per la semplicità e l’immediatezza delle suggestioni musicali questa parte è nel suo complesso la più prossima a realizzare quel sentimento religioso insieme vero e poetico che Schumann vagheggiava nella conseguente, estrema riduzione dei mezzi compositivi a elementare evidenza.

L””`Agnus Dei”” finale testimonia invece l’omogeneità della costruzione generale della Messa e l’impianto fondamentalmente classico delle sue corrispondenze. La conclusione si riallaccia al “”Kyrie”” iniziale non solo nella tonalità di do minore e nel tempo Ziemlich langsam ma anche nel materiale tematico e nel tono sommesso, se possibile ancora più concentrato, della preghiera.

L’invocazione alla pietà ha dapprima colori scuri, dolorosi, e un andamento quasi processionale di penitenza: par di cogliere nella musica la depressione per i peccati dell’uomo e la gravità della richiesta. Essa si rianima a poco a poco intessendo un fiorito dialogo tra voci e strumenti, quasi prendendo coraggio: intravedendo nella pace una luce, una speranza, una promessa.

Attraverso le ripetizioni dell’invocazione “”dona nobis pacem”” si compie un cammino di purificazione, di presa di coscienza: gli strumenti cantano uno dopo l’altro la loro gioia, mentre le voci si alleggeriscono e si trasfigurano. Insieme si riuniscono sul “”forte”” che prepara la risoluzione e la chiusa: uno splendente do maggiore ne suggella il compimento.

Wolfgang Sawallisch, Norbert Balatsch / Marjana Lipovšek, Gemma Bartagnolli, Carlo Putelli, Renato Vielmi, Orchestra e Coro dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Gestione autonoma dei concerti – Stagione sinfonica 1996-97

Articoli