Richard Wagner – Tristano e Isotta

R

Richard Wagner

Tristano e Isotta

Preludio e Morte di Isotta

 
«Poiché in mia vita non ho mai gustato la vera felicità dell’amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho sbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta; un concetto musicale della massima semplicità, ma puro sangue; col bruno vessillo che sventola in fine del dramma, voglio avvolgermi per morire!». Con queste parole, in una lettera a Liszt della fine del 1854, Wagner annunciava per la prima volta il proposito di cui sarebbe nato, fra il ’57 e il ’59, Tristano e Isotta: l’opera sua più profondamente e autobiograficamente vissuta, quella per la quale non esitò, in preda a un sacro furore che lo trascinava oltre il suo controllo, a interrompere a metà e per lungo tempo la composizione del ciclo nibelungico dell’Anello. Terminato il 6 agosto 1859, il Tristano dovette attendere quasi sei anni prima di andare in scena, a Monaco, il 10 giugno 1865: data che nella storia della musica e nella vita di Wagner segna un evento di portata incalcolabile.

L’idea di una riduzione orchestrale da concerto che al Preludio dell’opera accostasse una versione sinfonica del canto di morte di Isotta che chiude l’opera stessa, fu suggerita a Wagner da circostanze precise. Invitato a Parigi per dirigervi tre concerti di sue composizioni, egli aveva pensato di dare un saggio della sua ultima opera, ben conscio del rischio a cui sarebbe andato incontro proponendo una musica che per la novità e l’audacia che conteneva sembrava ai suoi stessi occhi qualcosa di terribile, di spaventoso; non per questo si tirò indietro, e nel dicembre 1859 compose quella pagina che sarebbe divenuta celeberrima col titolo di Preludio e Morte di Isotta, ma che in origine recava il semplice titolo di Preludio «con una conclusione da concerto» (la trasfigurazione finale di Isotta appunto). Eseguito il 25 gennaio 1860, in chiusura del primo di quei tre concerti parigini destinati a rimanere una pietra miliare nella carriera di Wagner, il pezzo ebbe accoglienza freddissima, a differenza degli altri brani in programma: la Marcia del Tannhäuser, entusiasticamente applaudita, parti del Lohengrin e una nuova versione dell’Ouverture dell’Olandese volante, anch’essa espressamente rielaborata per l’occasione. Già alla prima prova Wagner si era reso conto che le difficoltà che la musica del Tristano presentava, prima ancora che alla comprensione, alla semplice esecuzione, erano assai maggiori di quelle che si era immaginato. «Ho fatto suonare per la prima volta il Preludio del Tristano, e ora mi accorgo di quanto enormemente mi sia allontanato dal mondo negli ultimi otto anni. Questo piccolo Preludio fu per gli orchestrali così incomprensibilmente nuovo, che dovetti addirittura guidare di nota in nota i miei uomini come alla scoperta di pietre preziose nella miniera» (a Mathilde Wesendonk). Perfino Hector Berlioz, a cui Wagner aveva donato un esemplare con dedica della partitura stampata, scrisse di non aver capito nulla del Tristano e di non credere su quelle basi alla «musica dell’avvenire».

Al di là delle polemiche contingenti, non c’è dubbio che il primo ascolto di questa pagina dovette lasciare sconcertati e annichiliti. Le inaudite novità del linguaggio, dello stile e della stessa concezione musicale del Tristano hanno nel Preludio per così dire la quintessenza, il modello dal punto di vista compositivo: un modello in cui musicisti-teorici fra loro così diversi come Strauss, Schönberg e Hindemith hanno visto adombrate profezie e intuizioni di spessore tale da rimanere impermeabili all’analisi e alla sintesi, pagina aperta in tutta la sua ampiezza e perfezione sull’inafferrabile e l’ineffabile.

Allo stato puro, concentrato, nel Preludio compaiono tutti gli elementi che caratterizzano la partitura: la sfuggente e struggente inquietudine armonica, sostanziata di un cromatismo avvolgente e infiammato, la tensione dilatata della melodia «infinita», ossia di una melodia continuamente ruotante intorno a un centro mobile e differito, la maestria straordinaria della strumentazione, l’estrema escursione e libertà agogica e dinamica.

Questi elementi si presentano a loro volta come in un essenzialissimo compendio nelle prime tre battute del Preludio («Lento e languente»): l’incipit della frase dei violoncelli si leva sulla tensione pura dell’intervallo ascendente di sesta minore per ridiscendere poi cromaticamente e innestarsi, previo un accordo di fagotti, corno inglese e clarinetti rimasto nella sua ambiguità addirittura proverbiale, sull’ascesa simmetricamente ascendente per semitoni della cellula melodica degli oboi. Questa cellula, assai più di un motivo e meno di un tema, ritornerà nel momento fatale dello svelamento dell’amore di Tristano e Isotta (solo impropriamente dunque si vede in essa il germe del motivo del filtro magico). Le si contrappone in modo immediato il cosiddetto tema del desiderio, formato di due frasi distesamente melodiche in un clima sonoro di sfumate oscillazioni armoniche e dinamiche. «Sospiro e speranza, lamento e desiderio, voluttà e tormento» sono, secondo le parole di Wagner, i termini del contrasto cui questo Preludio dà voce, in un flusso ininterrotto che mantiene da cima a fondo il carattere di una eminente logicità e continuità. Dopo essere ascesa fino al culmine di massima intensità espressiva, la curva dinamica torna ad assottigliarsi fino al ritorno della cellula iniziale, in un cammino quasi a ritroso di ferreo rigore formale: come scriveva Wagner nel 1860, «esso si gonfia, si concretizza, e alla fine l’intero mondo sta di nuovo davanti a me in una massa impenetrabile».

Segue il canto estatico di morte di Isotta. Esso è basato sulla trasfigurazione di un motivo apparso alla fine del duetto del secondo atto, nel momento solenne del commiato dei due amanti. Soltanto adesso esso si svela come canto di morte e, insieme, superamento della morte stessa attraverso l’amore e annullamento della separazione terrena imposta dal tragico destino. Nella versione orchestrale senza la voce il canto di Isotta si fa quasi più duro e smaterializzato, l’anelito infinito della melodia verso un punto di riposo finale (quell’accordo di si maggiore che Strauss giudicò «l’accordo meglio strumentato di tutta la storia della musica»), ancora più teso e luminoso. La prodigiosa unità della concezione musicale risalta in tutta evidenza in questo naturale accostamento di inizio e fine, riuscendo a comunicare in modo impressionante il senso di una compiutezza organica immanente nelle smisurate architetture dell’opera.

Emil Tchakaroff / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Concerti 1981-82

Articoli