Richard Wagner – Siegfried

R

La luminosa giornata di Sigfrido

 Amore luminoso, morte ridente!
(Siegfried, fine atto III)

 

Fra i primi abbozzi del mito nibelungico di Sigfrido e la prima rappresentazione integrale della tetralogia L’Anello del Nibelungo a Bayreuth nell’agosto 1876, corrono esattamente ventott’anni, nel corso dei quali la vicenda umana e artistica di Wagner subì profonde e radicali trasformazioni. Il progetto originario di fare delle gesta e della morte di Sigfrido la materia di una grande opera eroico-romantica in tre atti si era venuto ampliando per ragioni di comprensione e di chiarezza artistica, fino ad abbracciare una grandiosa azione drammatico-musicale in quattro parti che, dalla catastrofe principale (La morte di Sigfrido, il futuro Crepuscolo degli dei) risaliva alle imprese del Giovane Sigfrido (poi Sigfrido), alle origini dell’eroe (La Walkiria), e infine agli antecedenti più remoti del furto dell’oro del Reno e della maledizione del nibelungo Alberich (argomento del prologo, L’oro del Reno). In quest’ordine, Wagner aveva dato stesura poetica ai testi delle tre giornate e del prologo fra il 1848 e la fine del ’52, e precisamente: alla Morte di Sigfrido fra il 12 e il 28 novembre 1848; al Giovane Sigfrido fra il 3 maggio e il 24 giugno 1851; alla Walkiria fra il 1° giugno e il 1° luglio 1852; all’Oro del Reno fra la metà di settembre e i primi di novembre del 1852; aggiungendo, nel corso dei quattro anni, alcune modifiche anche sostanziali soprattutto ai due primi drammi. Fatto stampare a proprie spese l’intero poema nel febbraio 1853 in edizione privata di soli 50 esemplari, si era accinto con entusiasmo alla composizione della musica partendo, come era naturale, dall’Oro del Reno, che fu iniziato il l° novembre 1853 nell’esilio di Zurigo e finito di strumentare il 28 maggio 1854; per passare subito alla prima giornata, La Walkiria, già interamente abbozzata il 27 dicembre 1854 ma ultimata in partitura, in-seguito a numerose soste forzate, soltanto il 23 marzo 1856. A quel punto Wagner, stremato ma soddisfatto del suo lavoro, era alla metà dell’opera, che si riprometteva di continuare e finire quanto prima.

Trascorsa l’estate in un soggiorno di cura sulle montagne svizzere per rimettersi da una fastidiosa allergia nervosa a cui andava ripetutamente soggetto, Wagner cominciò ad abbozzare la musica del Sigfrido il 22 settembre 1856, nonostante una sospensione di alcune settimane per una visita di Liszt a Zurigo: il 20 gennaio ’57 terminò lo schizzo del primo atto. I mesi successivi furono occupati dalla strumentazione, compito questa volta reso più facile che in precedenza dal fatto che la composizione era stata scritta per disteso e non più in sommarie annotazioni a matita. Il 22 maggio, dopo essersi ripreso da una crisi nervosa che lo aveva costretto al riposo, Wagner cominciò la composizione del secondo atto. Tutto sembrava dunque procedere per il meglio quando improvvisamente, il 27 giugno, dopo averne appena abbozzato alcuni schizzi orchestrali, Wagner interruppe il Sigfrido alla metà della seconda scena del secondo atto, là dove Sigfrido, partito Mime, si stende sotto il tiglio e comincia con le parole: «Dass der mein Vater nicht ist…» («Che costui non sia mio padre…»). Interruzione dapprima momentanea (due settimane dopo, quasi con furia, Wagner era intento ad annotare in rapidi schizzi l’abbozzo compositivo e orchestrale della conclusione dell’atto, come temendo di perdere e di non avere i punti di riferimento necessari alla successiva elaborazione); poi, il 9 agosto, definitiva: tanto definitiva che il terzo atto non sarebbe venuto che undici anni dopo.

 

 

L’interruzione

 

Che Wagner avesse deciso in piena coscienza di rinunciare per il momento all’impresa di continuare l’Anello, in attesa di tempi migliori, è dimostrato dalla famosa lettera inviata l’indomani di quel fatale 27 giugno all’amico Liszt: «Con gli Härtel non avrò più nessun fastidio, poiché finalmente mi sono deciso a rinunciare all’ostinata impresa di completare i miei Nibelunghi. Ho guidato il mio giovane Sigfrido nella bella solitudine del bosco; ivi l’ho lasciato sotto il tiglio e con sincere lacrime ho preso commiato da lui: – sta meglio là che altrove -. Se dovessi una volta ripigliare il lavoro, bisognerebbe o che le circostanze mi rendessero più facile il compito, o che mi fosse dato di regalare al mondo il mio lavoro nel significato più ampio della parola». Nella stessa lettera, Wagner addebitava la sua decisione non soltanto al fallimento delle trattative per l’acquisto dell’Anello da parte di Breitkopf & Härtel, da cui si era ripromesso una buona rendita, anticipata naturalmente, assicurando di poter finire il lavoro in breve tempo; ma anche alla necessità, sentita come improcrastinabile dopo un’astinenza durata ormai otto anni, di ritornare al teatro con un’opera nuova e di minori dimensioni, al fine di ritrovare il contatto diretto col pubblico e con la realtà viva di un’esecuzione, e di verificare la portata delle sue innovazioni nell’ambito del teatro musicale: troppe partiture erano state messe da parte, troppi soggetti si eran persi per strada, e Wagner confessava di non sentirsi quasi più tra i viventi, perduto com’era nel sogno apparentemente irrealizzabile dei Nibelunghi.

L’opera nuova, «assolutamente adatta ai tempi[!], che mi darà una buona e pronta rendita e mi manterrà a galla per qualche tempo», nella sua mente esisteva già: ed era Tristano e Isolda, che Wagner progettava ora di comporre, dopo «aver chiuso Sigfrido sotto chiavistello come un sepolto vivo». A  farlo decidere per il Tristano contro Sigfrido, avevan giocato diversi motivi, artistici e psicologici: la conoscenza della filosofia di Schopenhauer, l’infatuazione per il soggetto del Tristano, subito diventata smania di viverlo e di rappresentarlo, e non da ultimo la passione travolgente (altra proiezione autobiografica di sentimenti nell’arte tipica di Wagner) per Mathilde Wesendonk, moglie di quell’ottimo Otto Wesendonk che proprio nel 1857 aveva rilevato appositamente per Wagner una casa vicino alla sua villa, l’«Asilo» sulla verde collina di Zurigo: senza sospettare minimamente quel che sarebbe poi accaduto.

Nel lungo periodo dell’interruzione dell’Anello, Wagner peregrinò per mezza Europa, da Zurigo a Venezia, da Parigi a Vienna, prima di poter far ritorno in Germania, grazie all’amnistia totale del 28 marzo 1862 che cancellava la condanna all’esilio inflittagli per la partecipazione ai moti di Dresda del ’49, esser di nuovo cacciato, questa volta da Monaco, e trovar finalmente pace a Tribschen, in Svizzera. In  quegli anni visse avventure esaltanti e dolorose, passando incolume fra le tempeste della vita, i debiti e le depressioni, i guai familiari e l’amore contrastato per Mathilde Wesendonk, per scoprire infine, nella devozione di un giovane re, un mecenate di lui degno, e nell’unione, prima clandestina poi stabile, con Cosima Liszt, figlia dell’immortale amico e moglie anche lei di uno dei suoi migliori amici e collaboratori – il grande direttore d’orchestra e pianista Hans von Bülow – una serenità e una felicità fino ad allora sconosciuta. Compose non soltanto Tristano e Isolda (cominciato il ottobre 1857 e terminato il 6 agosto 1859, ma rappresentato soltanto il 10 giugno 1865 a Monaco), ma anche una nuova versione per Parigi del Tannhäuser (che cadde clamorosamente alla prima del 13 marzo 1861, nonostante le veementi difese di pochi illuminati, come Baudelaire) e i Maestri cantori di Norimberga (concepiti già alla fine del 1861, ma composti fra l’inizio del 1866 e il 24 ottobre 1867, e rappresentati con grande successo a Monaco il 21 giugno 1868 ; senza contare l’apparizione di Parsifal, «visto in sogno» il Venerdì Santo del lontano 1857 e steso in un primo abbozzo in prosa fra il 27 e il 30 agosto 1865.

In tutti questi anni, il progetto dell’Anello rimase nello sfondo, ma non fu mai del tutto abbandonato. Già nel dicembre 1859 gli editori Schott di Magonza avevano acquistato la partitura dell’Oro del Reno, riservandosi di comperare l’intero Anello a lavoro ultimato (cosa che difatti poi avvenne). Nell’aprile 1863, il poema, riveduto e corretto negli ultimi due drammi, che recavano ora i titoli definitivi di Siegfried e Gotterdämmerung (ossia Sigfrido e Crepuscolo degli dei), uscì in edizione a stampa, corredato da una prefazione in cui Wagner tornava a esporre le necessità che sole ne avrebbero permesso la realizzazione scenica e musicale: una piccola città, un auditorio costruito ad anfiteatro (a tale scopo aveva incaricato l’architetto zurighese Gottfried Semper di preparare alcuni progetti edilizi), la fossa d’orchestra invisibile al pubblico, un’acustica appositamente studiata per le caratteristiche del Wort-ton-drama, lunghi periodi di prove con artisti espressamente scelti dall’autore: non solo in base alle loro qualità, ma soprattutto perchè convinti di votarsi a una forma d’arte esclusiva, che richiedeva “stili e compiti particolari”; quanto ai finanziamenti, si sarebbe dovuto provvedere o con donazioni private, raccolte attraverso un pubblico appello, o con l’intervento di un principe munifico e amante dell’arte, non ancora corrotto da quell’«opera che offende il senso tedesco per la musica e per il dramma». «Si troverà mai questo principe?», suonava la malinconica conclusione di Wagner.

 

 

Principe e re

 

Un tale principe esisteva, anche se nel dicembre 1862, quando Wagner scriveva la sua prefazione, non era stato ancora trovato. Era costui un giovane di ascendenza nobilissima, stravagante e schivo, di bellezza straordinaria e di acuta sensibilità, folgorato dalla musica di Wagner fin da quando, a quindici anni, aveva visto e udito Lohengrin a Vienna. Un principe, appunto: erede al trono dello stato tedesco più conservatore, la Baviera. Allorché egli, il 10 marzo 1864, a soli diciotto anni d’età, succedette sul trono di Baviera a re Massimiliano II col nome di Ludwig (Luigi) II, Wagner si trovava a Vienna, oppresso dai debiti, abbandonato da tutti e costretto a disfarsi delle sue cose pur di realizzare moneta contante per far fronte alle cambiali più pressanti. I1 23 marzo, dopo il definitivo rifiuto di rappresentare Tristano, che per lui rappresentava la salvezza, Wagner dovette fuggire da Vienna per sottrarsi all’assedio dei creditori; riparò in Svizzera, e di lì a Stoccarda. Proprio a Stoccarda, il 3 maggio, lo raggiunse dopo lunga ricerca un inviato di re Luigi, latore di un ritratto, di un anello e di un messaggio in cui il giovane monarca dichiarava, citiamo le parole di Wagner, “il suo grande interesse per la mia arte e la sua ferma volontà di sottrarmi per sempre ad ogni ingiuria del destino, chiamandomi come amico al suo fianco”. Wagner doveva recarsi all’istante, e per la via più breve, a Monaco, dove il re in persona l’attendeva per onorarlo. «Quello stesso giorno avevo ricevuto da Vienna le più insistenti raccomandazioni di non ritornare. Spaventi di questo genere, ora, la vita non me ne avrebbe più fatti provare. Il pericoloso cammino per il quale il destino oggi mi chiamava alle più alte mète m’avrebbe, sì, riservato fastidi e affanni d’altra natura, quale ancora non conoscevo, ma sotto la protezione del mio nobile amico mai più mi avrebbero oppresso col loro peso le volgari miserie dell’esistenza»: sono, queste, le parole con cui si conclude Mein Leben, l’autobiografia di Wagner.

Wagner fu ricevuto dal re in udienza privata nella Residenza di Monaco il 4 maggio, come un imperatore. Sapute le sue esigenze, Ludwig passò all’azione: pagò tutti i debiti di Wagner, lo alloggiò all’«Englischer Garten», la zona più bella di Monaco, gli fissò un congruo stipendio, affittò per lui una villa sul lago di Starnberg, vicino al castello di Berg, residenza estiva del re: dimora principesca, e alcova segreta dei primi amori con Cosima, che il 29 giugno aveva raggiunto il maestro allo scopo dichiarato di aiutarlo nella preparazione della sua autobiografia. Certo è che nei loro incontri non si limitarono a questo, se esattamente nove mesi dopo, il 10 aprile 1865, Cosima partorì a Wagner una figlia, chiamata Isolde, lo stesso giorno in cui Hans von Bülow, suo marito, dirigeva all’Opera di Monaco la prima prova orchestrale del Tristano.

Il 7 ottobre, in udienza dal re, Wagner ricevette 1’«ordine ufficiale» di finire l’Anello, per acquistare il quale le casse dello stato sborsarono 30.000 fiorini; Wagner, prudentemente, tacque i precedenti impegni presi con Schott. Fra regali, stipendi e affitti, Luigi in poco meno di sei mesi aveva speso già mezzo milione di marchi. Per sdebitarsi, il maestro gli donò, oltre a numerosi manoscritti e autografi poetici e musicali, le partiture di Le fate, Divieto d’amore, Rienzi, Oro del Reno, Walkiria, Maestri cantori e dello Huldigungsmarsch, che era stato eseguito in onore del re il 5 ottobre nel cortile della Residenza. Quell’anno decisivo per la vita di Wagner si concluse sotto i migliori auspici: il 4 dicembre si ebbe la prima rappresentazione a Monaco dell’Olandese volante, diretta dall’autore, e il 29 dello stesso mese re Luigi, su richiesta di Wagner, commissionò a Gottfried Semper il progetto per la costruzione di un nuovo teatro a Monaco, adatto allo scopo di rappresentare, come si conveniva, l’Anello. Intanto, già in settembre Wagner aveva cominciato a rivedere le parti già fatte del Sigfrido, stendendo in bella copia la partitura del primo atto e mettendo ordine negli appunti orchestrali del secondo.

 

 

Una nuova era della musica

 

Non ne avrebbe però ripreso la composizione vera e propria che alla fine del 1868. Il 1865 è l’anno della prima rappresentazione del Tristano, data d’inizio di una nuova era della musica. Ma fu anche l’anno dei primi aspri attacchi portati a Wagner dagli ambienti ufficiali e benpensanti di Monaco, secondo i quali il musicista, oltre a stornare una cifra considerevole dalle casse dell’erario e a tenere una condotta non proprio rreprensibile, intendendosela con la moglie di colui che aveva fatto chiamare alla direzione dell’Opera di Monaco, avrebbe esercitato un influsso dannoso sul re, condizionandolo nelle scelte politiche e perfino religiose (dopo tutto si trattava di un luterano con trascorsi rivoluzionari, e la Baviera, si sa, è terra cattolica). Tutto questo era in gran parte vero. Invano Wagner si difese con una lettera aperta approvata dal re e pubblicata il 22 febbraio sulle colonne della «Allgemeine Zeitung», in cui negava ogni addebito. Col passare dei mesi, la situazione, anche in seguito alle ingenti spese richieste dalla rappresentazione del Tristano, si fece insostenibile. Posto di fronte al bivio della scelta «fra 1’amore e la venerazione del suo popolo fedele e l’amicizia Richard Wagner», Ludwig dovette cedere e invitare Wagner ad andarsene. Il 10 dicembre, Wagner lasciò Monaco : accompagnato da una forte somma e dall’assicurazione che il re, suo suddito, non l’avrebbe comunque mai abbandonato.

Si trasferì di nuovo in Svizzera. In aprile, affittò una villa a Tribschen presso Lucerna, dove sarebbe rimasto fino al 1870, anno in cui avrebbe spiccato l’ultimo volo, destinazione Bayreuth. Poco dopo, lo raggiunse anche Cosima con le figlie, la sua e quelle di Bülow; intanto, il 25 gennaio, era morta Minna, sua moglie, da anni confinata a Dresda.

Il 22 maggio 1866, giorno del conquantatreesimo compleanno di Wagner, fece loro visita in incognito Ludwig, sempre più triste e incapace dii vivere lontano dall’amico. Il 1866 è l’anno dei Maestri cantori di Norimberga, il cui lavoro occupò Wagner anche per gran parte del 1867 e fu allietato dalla nascita (17 febbraio) della seconda figlia dell’unione con Cosima, a cui fu imposto, non c’è bisogno di dirlo, il nome di Eva. Proprio i Maestri cantori, alla prima rappresentazione del 21 giugno 1868, furono la personale rivincita di Wagner su Monaco e l’occasione per ricomporre alcuni fugaci dissapori con l’esacerbato re di Baviera: Wagner vi assistette dal palco reale accanto all’estasiato Luigi, entrambi fatti oggetto di grandiose ovazioni. Rimase quello il più grande trionfo ottenuto da Wagner in un teatro di grandi tradizioni, prima di Bayreuth.

Fece ritorno a Tribschen il 24 giugno 1868, questa volta veramente deciso a riprendere il lavoro alla Tetralogia. Alla soddisfazione per il riconoscimento ottenuto e alla certezza che la grande impresa avrebbe trovato realizzazione secondo i suoi desideri, grazie all’aiuto di Luigi, si univa ora una tranquillità spirituale e affettiva e mai provata prima, e che la decisione di Cosima di venire a vivere per sempre con lui aveva ancor più rafforzato. Così, il 16 novembre, ottenuto il divorzio da Bülow, Cosima con le quattro figlie (il conto era ormai in pareggio) , si stabilì definitivamente a Tribschen. Verso la fine dell’anno, Wagner si gettò a capofitto nel lavoro del Sigfrido, e il 23 febbraio 1869 poté terminare la bella copia della partitura del secondo atto, undici anni e mezzo dopo che l’aveva interrotto. Si sentiva trasformato, felice e sereno, rigenerato da una nuova maturità artistica; in una lettera al re amico (24 febbraio), scrisse che nel suo lavoro era scesa «eine seltsame Gleichmässigkeit», una insolita regolarità, e ciò nella grande musica del Sigfrido si sente. In queste condizioni, la composizione del terzo atto non richiese molto tempo, poco più di quattro mesi, dal 1 ° marzo al 14 giugno; intanto il 6 giugno, con tempismo e regia che hanno del sensazionale, insieme con il terzo atto era nato anche il terzo figlio, un maschio finalmente: Siegfried. L’estate servì per stendere l’abbozzo orchestrale e poi la strumentazione, e alla fine di settembre la partitura era ultimata, anche se la bella copia non fu pronta che il 5 febbraio 1871.

Contemporaneamente, il 22 settembre 1869 si era avuta a Monaco la prima rappresentazione dell’Oro del Reno, strenuamente voluta e anzi imposta dall’impaziente re Luigi contro il parere di Wagner. Così, la Tetralogia cominciava a vedere la luce, anche se l’autore non se ne rallegrava ancora. E come avrebbe potuto? Alla storica inaugurazione di Bayreuth, ove Sigrido andò in scena per la prima volta il 16 agosto 1876, mancavano ancora sette anni. Wagner non sapeva allora quanti ce ne sarebbero voluti, ma era certo che quel giorno sarebbe giunto. E intanto, perdonò volentieri l’impazienza dell’amico e sovrano, e nel dedicargli la partitura del Sigfrido lo eternò con parole una volta tanto sincere: “… E questo gesto è riuscito al tuo amico: ciò che egli racchiuse per undici anni nel sonno muto, il suo canto ha ridestato ora alla vita e alla donna risvegliata si unisce il compagno. Ma come avrebbe mai squillato questo canto di risveglio se il fiore della tua giovinezza non fosse per me  sbocciato? Il giorno in cui te lo mando mi invita a indirizzare il miracolo interamente a te».

 

 

I personaggi e l’azione

 

Dei sette personaggi che intervengono nell’azione della seconda giornata dell’Anello del Nibelungo, Sigfrido, il protagonista, è l’unico personaggio nuovo. Ritroviamo accanto a lui Wotan, il padre degli dei, celato nella figura del Viandante (der Wanderer); i nibelunghi Alberich e Mime, che ciascuno a suo modo meditano la riconquista del tesoro maledetto empiamente sottratto alle figlie del Reno; il gigante Fafner, che del tesoro ha ora il possesso, e per meglio custodirlo si è mutato in drago; Erda, la misteriosa dea madre di tutte le cose; e infine Brunilde, la Walkiria punita da Wotan per la sua disubbidienza e addormentata su una rupe recinta da alte lingue di fuoco. Chi conosce gli antefatti rappresentati nel prologo e nella prima giornata, sa che in realtà Sigfrido è in modo implicito presente fin dall’inizio nello svolgimento del dramma: ideato dal pensiero di Wotan alla fine dell’Oro del Reno come mezzo di redenzione del mondo e fonte di riscatto, attraverso l’amore, della colpa degli dei (e perciò là annunciato dal simbolo musicale della spada Nothung); materialmente concepito nell’amplesso incestuoso dei gemelli Siegmund e Sieglinde e salvato, dopo la morte del padre, dal generoso sacrificio di Brunilde, Sigfrido viene alla luce in un antro della foresta dove la Walkiria ha condotto Sieglinde per sottrarla alle ire di Wotan. Nel partorirlo, la madre muore, lasciandogli in eredità solo i frammenti della spada Nothung, già appartenuta a Siegmund e spezzata in mortale duello dalla lancia di Wotan. Raccolto dal nano Mime, che gli nasconde la sua vera identità allo scopo di servirsene per conquistare il tesoro custodito da Fafner, Sigfrido cresce in perfetta armonia con i suoni e la vita della natura, di cui si sente parte, ignaro e inconsapevole di tutto quel che lo circonda. Lo vediamo apparire all’inizio del primo atto, vestito come un abitante delle caverne, un corno d’argento appeso a una catena, baldanzoso e selvaggio, mentre aizza un orso contro Mime, per spaventarlo; il quale Mime, per parte sua, nonostante le sue rinomate arti fabbrili, non è ancora riuscito a forgiare la spada che, in mano a Sigfrido, dovrà uccidere Fafner e aprire la strada verso l’agognato bottino. Quel che segue, il lettore lo apprenderà direttamente dalle vicende della seconda giornata della Tetralogia: come Sigfrido, forgiata da sé la spada Nothung, abbatta il drago e subito dopo il perfido Mime, si impadronisca dell’anello e del tesoro e, sospinto dal canto di un uccellino della foresta, di cui ora comprende il linguaggio, raggiunga la rupe di Brunilde e risvegli la Walkiria addormentata.

Questi, per sommi capi, i fatti. L’entrata in scena del protagonista a lungo atteso, che ora diviene il perno dell’azione, determina una svolta profonda nella concezione stessa del dramma musicale, di cui Wagner dovette essere ben consapevole. Rispetto all’Oro del Reno e alla Walkiria, il Sigfrido, episodio centrale della Tetralogia, presenta una struttura fondamentalmente diversa, assai più lineare e compatta, addensata in scene simmetricamente bilanciate e bloccate sul contrasto diretto fra due o tre personaggi alla volta. La vicenda ha corso in tre atti, ognuno suddiviso in tre scene: nel primo atto, l’azione si svolge fra due personaggi per scena, Mime e Sigfrido (I scena), Mime e il Viandante (II scena), di nuovo Mime e Sigfrido (III scena); nel secondo, fra tre alla volta, Alberich, il Viandante e Fafner (I scena), Mime, Sigfrido e Fafner (II scena), Sigfrido, Mime e Alberich, più l’intervento della voce dell’uccellino della foresta, che è però elemento extrascenico, suono della natura che sale e si confonde con l’orchestra (III scena); nel terzo atto, infine, il contrasto si radicalizza ancora, fra Erda e il Viandante (I scena), Sigfrido e il Viandante (II scena), Brunilde e Sigfrido (III scena). Questa particolare simmetria nella costruzione del Sigfrido, solo apparentemente in contraddizione con la forma del dramma musicale, che presuppone uno sviluppo continuo dell’azione senza cesure o blocchi, nasce da ragioni drammaturgiche prima che musicali, ma finisce per condizionare la stessa veste musicale, e anzi solo in questa trova necessaria giustificazione, senza peraltro ripudiare nessuna delle fondamentali conquiste lessicali e stilistiche delle due parti che precedono. Imputarla, come molti hanno fatto, alla circostanza che la concezione originaria del mito di Sigfrido risentiva ancora dei moduli della grande opera eroico-romantica, a cui Wagner si era attenuto nella primitiva stesura del testo, significa precludersi ogni possibilità di comprensione della posizione specifica che il Sigfrido occupa nell’arco dell’Anello: se il Sigfrido è la storia di un eroe, solo attraverso il contrasto diretto fra i personaggi e le situazioni acquisite dalla vicenda era possibile delineare il ritratto del protagonista nelle tappe della sua formazione, da selvaggio abitante della foresta, quale appare all’inizio, a puro eroe trionfante sul mondo, quale diviene alla fine. Significativamente, ogni finale d’atto coincide con il superamento del contrasto e con l’affermazione vittoriosa di Sigfrido sui suoi antagonisti: sui nibelunghi (su Mime), sui giganti (su Fafner), sugli dei (su Wotan), fino al trionfo massimo rappresentato dall’incontro con Brunilde, in cui Sigfrido scopre se stesso e, attraverso l’amore, l’altro da sé. In tutta questa giornata, egli rimane il centro dell’azione, il punto di riferimento costante delle mire e delle tensioni degli altri personaggi, l’unico in grado di mutare il corso segnato dal destino.

 

 

Il giovane eroe

 

Quella di Sigfrido non è soltanto la storia di un eroe, è anche un Bildungsroman dell’adolescenza e della prima giovinezza, che anela a realizzarsi attraverso l’azione e le libere avventure, senza avere dapprincipio mète precise, e all’avventura, all’eroismo stesso soccombe per tragico volere del destino, percorrendo fino in fondo il cammino della degradazione e della vanità delle umane imprese. Ma come ciò avvenga, e perché, è argomento del Crepuscolo degli dei, non del Sigfrido. Qui si compie appena la fase ascendente dell’apprendistato del giovane protagonista, quella della conoscenza dell’ignoto e della conquista del rango di eroe a lui predestinato. All’inizio, Sigfrido non è ancora un eroe: Mime, suo cattivo mentore, lo giudica un ragazzaccio selvatico, ardito, irriconoscente e soprattutto stupido, sciocco. Solo per il Viandante egli è fin dal principio, più che un eroe, un redentore: perché il Viandante altri non è che la maschera di Wotan.

Sigfrido si apre alla vita attraverso simboli oscuri e indecifrabili: le leggi della natura che rispetta ma non comprende, la spada, il significato della paura che non conosce, il pensiero della madre morta per lui e del padre assente, il bisogno di sapere la sua origine, di darsi un’identità. Natura, sensibilità, inconsapevolezza, intuito sono i suoi tratti fondamentali. La sua ignoranza è duplice: non conoscere nulla vuol dire non aver paura di nulla, e quindi essere pronto ad affrontare tutto, ma anche non sapere ancora scegliere. Uno dopo l’altro, egli rende reali quei simboli, e così scopre se stesso, ed emozioni e sentimenti prima sconosciuti. Dal limbo dell’incoscienza, acquista coscienza di sé e del mondo per mezzo dell’azione e della riflessione: apprende come la madre morì per lui, il suo nome (Siegfried, pace di vittoria) e quello di lei, il sacrificio del padre; forgia la spada, uccide con essa il drago e arriva a comprendere magicamente il linguaggio della natura: impara la paura, invano attesa di fronte all’orrore della selva evocato da Mime, alla minaccia del drago, all’asta di Wotan e al fuoco di Loge, solo conoscendo l’amore, ossia l’attrazione per un altro essere umano, nella forma più alta, l’impulso vitale verso l’altro sesso. È significativo che questo cammino di iniziazione si compia nella estraneità assoluta al mondo corrotto di dei, nibelunghi e giganti: Sigfrido è solo, tutti i personaggi che incontra gli sono in qualche modo ostili, e per affermare se stesso egli deve lottare con essi, fino a farli cedere.

Questo antagonismo, posto alla base dell’architettura dell’opera, si rispecchia anche nel rapporto degli altri personaggi tra loro, e occupa le scene in cui Sigfrido non appare, una per atto, quasi zone d’ombra inframezzate alla luce: la scena degli enigmi fra Mime e il Viandante nel primo atto, la disputa fra Alberich, il Viandante e Fafner nel secondo, il colloquio del Viandante con Erda nel terzo. Così Sigfrido, che Wotan aveva concepito come strumento di riscatto e di redenzione, diviene personaggio autosufficiente e compiuto, l’unico a cui sia concesso di vivere nel presente e di realizzarsi nella perfetta corrispondenza di pensiero e azione, desiderio e realtà: mèta negata agli altri personaggi della Tetralogia, vittime tutti, Wotan in testa, del dissidio fra volere e potere per cui si era immolata l’incolpevole Brunilde, e per cui invano si affannano i nani Alberich e Mime.

L’incontro con Brunilde è l’ultimo e definitivo stadio dell’apprendistato di Sigfrido, il momento in cui egli si scopre, oltre che uomo, puro eroe solare: ché tale poteva riconoscerlo solo la vergine Walkiria, a lui promessa, dopo il risveglio da un lungo sonno. Esso segna il punto cruciale della parabola della giovinezza di Sigfrido, lo zenit stellare della sua vicenda, dopo il quale la discesa sarà rapida, e tutt’altro che eroica. Dal Crepuscolo apprenderemo non soltanto che Sigfrido non è la salvezza e l’eredità gloriosa di un mondo rigenerato quale Wotan aveva sperato, ma anche che la sua vocazione eroica e umana rimane dolorosamente incompiuta. La rovina di Sigfrido comincia nell’istante in cui egli sa, dalle parole di Brunilde, di essere un eroe, destinato a grandi imprese, ossia, è ancora Brunilde a esortarlo, «zu neuen Taten», a nuove imprese. Di tale verità, Sigfrido apprenderà il senso soltanto prima di morire trafitto a tradimento, come ad un eroe non si conviene: nel ricordo, appunto, della passata giovinezza radiosa. C’è un punto, nel Sigfrido, in cui il triste destino dell’eroe è adombrato appena, ma inequivocabilmente; ed è nel canto di Fafner ferito a morte, pieno di struggimento e di presagio per la sorte di quel «hellhäugiger Knabe, unkund seiner selbst» («ragazzo dagli occhi chiari, inconscio di se stesso»), che ha compiuto l’ultimo atto del crepuscolo perenne dei giganti: un canto che è, in fondo, già una marcia funebre. In questo processo di trasformazione del personaggio nel corso della realizzazione dell’opera sta la differenza sostanziale fra il Sigfrido del mito e quello, assai menò mitico e più psicologico, di Wagner.

Trasformazione profonda e problematica, al cui senso ultimo manca una risposta convincente, a meno di non voler ridurre tutta la questione all’abbandono della filosofia «ottimistica» di Feuerbach per il pessimismo di Schopenhauer. Schopenhauer, se mai, è rispecchiato nella evoluzione del personaggio di Wotan: il Viandante è una pura incarnazione della filosofia di Schopenhauer, a cui peraltro Wagner era già pervenuto con le sue sole forze. Quanto a Feuerbach, egli appartiene più al clima post-quarantottesco della Morte di Sigfrido che alla matura raffigurazione del giovane eroe nella realizzazione poetica e musicale della Tetralogia. Interpretare, come ha fatto Shaw, l’Anello come allegoria del tempo e della ideologia di Wagner, opera storica e non mitica, e vedere in Sigfrido il prototipo del rivoluzionario e dell’anarchico, Bakunin insomma, significa tradire lo spirito e la lettera della composizione wagneriana.

L’ottimismo del Sigfrido, nel contesto della Tetralogia, è anche uno stato d’animo, una stagione della vita: il momento della luce, la scoperta delle emozioni e della consapevolezza dei sentimenti, l’età della giovinezza eroica e mitica che coincide con la giovinezza del mondo, non più vissuta in prima persona, ma con gli occhi disincantati di un dio perdente, come Wotan, e di un artista maturo, miracolosamente ritornato giovane: poiché, come ha intuito Nietzsche, «il prototipo meravigliosamente lineare del giovane, il Sigfrido dell’Anello del Nibelungo, poteva crearlo solo un uomo, e precisamente un uomo che avesse trovato solo tardi la sua giovinezza».

 

 

E fu luce

 

Sigfrido viene dopo il Tristano e i Maestri cantori e sarebbe, senza di quelli, impensabile. Non solo per l’importanza che vi assumono l’armonistica del Tristano e il magistero contrappuntistico dei Maestri, fatti che concernono il linguaggio e lo stile individuale dell’opera, ma anche per il carattere della concezione poetico-musicale. Sigfrido sta al Tristano come il giorno alla notte, la luce alla tenebra. In particolare, il canto di amore e morte del Tristano diventa, nel Sigfrido, inno gioioso all’amore come vita, luminosa conquista dell’estasi inebriante, punto massimo di felicità, in cui si compie il destino eroico, o forse semplicemente umano, di Sigfrido e Brunilde, e si prepara una nuova età della conoscenza. Alle parole di Tristano e Isolda inghiottiti dalla notte, «Lass den Tag dem Tode weichen!» («Lascia che il giorno ceda alla morte! »), nel duetto del secondo atto del Tristano, si contrappone lo sfavillante «Leuchtende Liebe! Lachender Tod!» («Amore luminoso! Morte ridente! ») con cui si conclude la seconda giornata della Tetralogia, e dove anche la morte, simbolo eterno del romanticismo di Wagner, si fa ridente, amica della vita. Ciò spiega più di ogni altra cosa l’interruzione del Sigfrido, opera di luce, per la notte funebre del Tristano; e la ripresa del Sigfrido solo dopo aver lenito le ferite di un’ansia inestinguibile e aver esaurito le forti tensioni e le aspirazioni inconsce di nuovi progetti; non solo la desolata tragedia degli amanti consacrati alla morte ma anche la tenera commedia umana dei borghesi di Norimberga.

Gli anni che attraversano la composizione del Sigfrido, dunque, non passano invano. Wagner matura, esce dalla lunga notte del Tristano e dall’aurora dei Maestri cantori per riaccostarsi alla pura luce del Sigfrido. Forse nessun’altra opera come questa sua è così piena della ritrovata gioia di vivere, di proiezioni di vita vissuta, perfino di elementi autobiografici: il motivo per lo scoppio d’ira di Sigfrido contro l’inetto fabbro Mime, all’inizio del dramma, quel tema in sol minore, infantilmente litigioso e schiamazzante, cantato con rabbia, fu suggerito a Wagner per disperazione dalle strepitose e ossessive martellate di un fabbro capitato, chissà come, di faccia a casa sua, a Zurigo, proprio nel delicato periodo d’inizio della composizione. E che dire poi del Waldweben, la musica della vita della foresta nel secondo atto, in cui Wagner attinge vertici di sublimità che a lui solo fu dato un’altra volta di superare, nel Parsifal? «In quei sereni pomeriggi estivi» – ricorda Wagner – «dirigevo le mie passeggiate quotidiane alla tranquilla valle della Sihl: nei suoi anfratti boscosi ascoltavo a lungo attentamente il canto degli uccelli, e mi stupivo di far conoscenza con melodie per me completamente nuove, ad opera di cantori dei quali non vedevo l’aspetto e tanto meno sapevo i nomi. Quanto riuscii a portar via delle loro melodie, lo utilizzai artisticamente nella scena della foresta del Sigfrido». Quanto ai due temi principali del duetto finale, intonati da Brunilde il primo sulle parole «Ewig war ich, ewig bin ich» («Eterna fui, eterna sono»), il secondo dopo l’esclamazione giubilante «O kindischer Held! O herrlicher Knabe!» («O eroe fanciullo! O stupendo ragazzo!»), ognun sa che sono i temi di Cosima, pensati per il muto linguaggio di un quartetto d’archi nel 1864, al tempo dei primi amori furtivi e segreti, e ora risplendenti a canto spiegato di parole appassionate, nella gioia d’un sogno divenuto realtà: i temi che risuonarono un’ultima volta, in nuova veste, la mattina di Natale del 1870, nell’Idillio di Sigfrido, per il compleanno dell’amica e consorte dilettissima, dono augurale per lei e per il figlio Siegfried.

 

 

Tecnica compositiva nuova

 

Di concerto con la particolare struttura drammaturgica del poema, Wagner si serve per la musica del Sigfrido di una tecnica compositiva nuova. Nuova non tanto negli elementi, che permangono gli stessi, solo ancor più perfezionati e arricchiti dalle prove precedenti, quanto nel loro impiego e sviluppo, e per i fini che intende raggiungere. Nuovo è anzitutto l’uso dei Leitmotive, che restano funzioni determinanti di caratterizzazione psicologica ma accentuano il peso specifico dell’allegoria, fino a presentarsi sovente come contrasti tematici diretti, categorie di distinzione fra personaggi e valori, metafore del dramma (come, per esempio, nella potente scena dell’assalto di Sigfrido al drago). Dal lato armonico, il cromatismo d’ascendenza tristaniana ora si fonde ora coesiste con il diatonismo dei Maestri cantori, anche qui con intenti evidentemente simbolici: cromatico è il mondo sonoro delle figure oscure e tenebrose di Mime, Alberich e Fafner, e delle scene in cui essi intervengono o sono evocati dalla musica, come nei preludi del primo e del secondo atto; ad armonie sfigurate da intervalli diminuiti o eccedenti, si accompagna un canto inquieto, contorto e teso, brulicante di ombre e di attese. Diatonico, ossia chiaro, disteso, luminosamente plastico, quello di Sigfrido e delle scene di cui è protagonista, in cui il canto stesso si fa aperto, modellato su ampie arcate a tutto tondo, eroico. Il motivo del corno di Sigfrido, che echeggia nel secondo atto prima dell’uccisione del drago, ne è l’emblema massimo. La figura di Sigfrido è così definita dalla musica, e la sua evoluzione delineata proprio dalla imperiosa individualità dei suoi temi in sé e rispetto a quelli degli altri personaggi con cui si scontra; altrove, invece, è sottolineata da sottili incrinature armoniche e da introspettivi ripiegamenti melodici, là dove Sigfrido, solo sulla scena, si interroga sgomento sulla propria origine (nel primo e poi nel secondo atto), o trema per la prima volta di paura di fronte alla Walkiria addormentata (atto terzo, inizio della terza scena). Su altri piani, Sigfrido deve all’esperienza dei Maestri cantori la muscolosa tessitura contrappuntistica e la compattezza ritmica di alcune scene (la forgiatura della spada nel primo atto, ad esempio, con il controcanto di Mime sullo sfondo), e un umorismo acido, che impregna la personificazione di Mime, qui più di prima parente stretto di Beckmesser, e la grottesca scena della baruffa tra Alberich e Mime, nella scena terza del secondo atto. Aggiungendo a tutto ciò la risonanza profonda che hanno le voci e i suoni della natura, a cui Sigfrido, come Wagner, si abbandona stupito, e la freschezza popolare di motivi che risuonano con la forza di elementi primordiali, avremo, se non tutti, alcuni dei tratti distintivi della partitura del Sigfrido.

Una partitura, nel suo insieme, di estrema plasticità ed evidenza rappresentativa, dove predomina l’elemento sinfonico e si realizza una tavolozza orchestrale di seducenti risorse espressive, ricchissima di colori e di sfumature. «È il fatto musicale spinto al delirio timbrico, la musica come esistenza e decantazione di timbri», ha scritto Gavazzeni. La tecnica del grande affresco sinfonico è impiegata soprattutto nei grandiosi finali del primo e del terzo atto e nella scena centrale del secondo, allo scopo di rendere, per mezzo della massima concentrazione dei blocchi musicali, le vaste dimensioni spaziali e coloristiche entro cui giganteggia, in primo piano, la figura di Sigfrido. Nella coerenza con lo sviluppo drammaturgico dell’azione, Wagner non rinuncia però al gusto per la penetrazione psicologica, al culto a lui così tipico del particolare, alla raffinata pregnanza delle trasformazioni e degli intrecci tematici. Ne beneficiano anzitutto i personaggi di Mime e del Viandante, antagonisti sconfitti di Sigfrido. Se Mime è vittima predestinata di un destino che lo trascende, a deviare il quale non bastano certo le ridicole astuzie della sua mente di nibelungo, Wotan, divenuto Doppelganger di sé come Viandante, è il dolente protagonista dello sdoppiamento tra un passato glorioso popolato di sogni di potenza e un presente che egli non è più in grado di determinare, né vuole più mutare: «Zu schauen kam ich, nicht zu schaffen», «a guardare son venuto, non a operare», ripete, più che agli altri, a se stesso. Vagare nel costume di viandante, e ricordare, è il suo destino senza futuro. Solo per. mezzo della reminiscenza musicale era possibile rendere in pieno questa continua compresenza di una duplice vita, e la piaga di un dissidio straziante. Di qui l’importanza per l’economia del dramma della scena degli enigmi con Mime, tutt’altro che un’inutile ricapitolazione di fatti già noti, e della terrificante scena della evocazione della dea-madre Erda, che apre il terzo atto. Wotan è costretto a ricordare ancora una volta ciò che più l’opprime, l’ingiusta punizione della Walkiria, e a porsi la domanda ultima: «Wie besiegt die Sorge der Gott?», «come il dio potrà vincere l’affanno?». Solo desiderando la fine degli dei e cedendo con letizia «dem ewig Jungen», «al giovanile eterno», potrà alfine trovar pace. Il suo volere si compie nel successivo incontro con Sigfrido: la lancia dei patti, che aveva mandato in frantumi la spada Nothung, è ora a sua volta fatta a pezzi dalla spada brandita da Sigfrido. Il dado è tratto. Al Viandante non resta che raccogliere tranquillo i pezzi caduti, lasciando via libera all’ultima tappa dell’iniziazione di Sigfrido. Sappiamo chi rifonderà quei pezzi della lancia avvelenata: Parsifal.

La scena finale ripropone per l’ultima volta un contrasto drammatico dilatato a grandi dimensioni sinfoniche. Abbiamo visto che questa è una caratteristica peculiare del Sigfrido, necessaria affinché la musica possa dare corpo e spessore al rilievo del dramma, e non significa un ritorno agli schemi tradizionali del melodramma. Il blocco finale, con le sue sezioni ben definite, si staglia come una cima isolata, sospesa sulla vicenda dell’Anello non soltanto come un culmine espressivo, ma anche come una parte a sé stante, staccata dal resto dell’azione: un’oasi di luce che trionfalmente conclude la luminosa giornata di Sigfrido. Ora tutto si fa distensione, i ritmi si appianano, i timbri si schiariscono, le aspre dissonanze divengono consonanze piene, l’armonia si fa a poco a poco diatonica fino a raggiungere, nel momento solenne del risveglio di Brunilde, il sole accecante della tonalità di do maggiore: mèta in cui si consumeranno gli ardori, canori e non, della coppia ebbra d’amore.

Herbert Charlier / Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione Lirica Invernale 1980-81

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