Richard Wagner – La Walkiria, tre atti su testo poetico di Richard Wagner

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La Walkiria

 

“”Con dolore, si è conclusa anche La Walkiria: è la cosa più bella che io abbia mai composto””.

(Richard Wagner ad Antonio Pusinelli, il 28 aprile 1856)

 

La prima rappresentazione integrale della “”sagra scenica”” L’anello del Nibelungo (un prologo – L’oro del reno – e tre giornate – La Walkiria, Siegfried, Il crepuscolo degli dei) avvenuta a Bayreuth, in un teatro per essa appositamente costruito, in quattro serate tra il 13 agosto e il 17 agosto 1876, coronava la massima aspirazione di Wagner, tenacemente perseguita per oltre trent’anni: dare, alla nazione tedesca e al mondo, il modello di un’epopea gigantesca attraverso una interpretazione rivoluzionaria delle possibilità del teatro in musica.

Concepito fin dal 1848 come approfondimento del mito nibelungico imperniato sulle gesta e la morte di Sigfrido, il progetto wagneriano di fare di quella epopea nibelungica una grande e composita opera – quasi la summa di un nuovo pensiero drammatico-musicale – si era sempre più ampliato strada facendo fino ad abbracciare una grandiosa azione drammatica in quattro parti che, partendo dalla catastrofe finale, risaliva agli antecedenti più prossimi (le origini e le imprese di Sigfrido) e più remoti (il furto dell’oro del Reno e la maledizione scagliata dal nibelungo Alberich, argomento del prologo L’oro del Reno).

Le necessità obiettive di questo ampliamento sono esposte con estrema chiarezza in una importante lettera a Franz Liszt del 20 novembre 1851, che è utile richiamare qui per quanto attiene in modo particolare La Walkiria. Wagner, dopo aver steso in versi il dramma della Morte di Siegfried (il futuro Crepuscolo degli dei) e successivamente quello del Giovane Siegfried (poi semplicemente Siegfried), nell’accingersi al lavoro musicale si era reso conto che in essi erano contenuti troppi riferimenti poetici (e virtualmente anche musicali) agli antefatti delle vicende che vi si narravano, tanto da non dare l’impressione di cosa unitaria e completa. “”In questi due drammi”” – scriveva a Liszt – “”una quantità di rapporti necessari li affido alla narrazione e anche alla immaginazione degli ascoltatori. Tutto quanto nell’azione e nei personaggi di questi due drammi è troppo toccante, è troppo forte, ho dovuto esporlo visibilmente nella rappresentazione, ma solo al pensiero.

(…) Immaginati lo strano, fatale amore di Siegmund e Sieglinde; Wotan in rapporto profondamente misterioso con quest’amore; poi quando nel contrasto con Fricka, nel suo represso furore condanna a morte Siegmund – a tutela del costume. – Infine la sublime Walkiria Brünnhilde, quando indovina l’intimo pensiero di Wotan, si ribella al dio e viene da lui punita. – Figurati questa ricchezza di motivi (…) presi per argomento d’un dramma che precede i due Siegfried, e allora comprenderai che non solo la riflessione, ma particolarmente l’entusiasmo mi fecero concepire questo disegno””. Segue, nella lettera, lo schema del poema L’anello del Nibelungo nella forma definitiva che conosciamo: un prologo e tre grandi “”giornate””, prima delle quali Die Walküre (La Walkiria., appunto).

Se cronologicamente la stesura poetica della Walkiria precedette quella dell’Oro del Reno (impegnando Wagner, abbozzi a parte, dal 1 giugno al 1 luglio 1852 la prima, da metà settembre al principio di novembre dello stesso anno il secondo), ciò si inquadrava perfettamente nella singolare gestazione “”a ritroso”” dell’intero ciclo: ove da un unico ceppo, per progressiva ricostruzione dì antefatti, erano nate quattro diverse creature, in stretto rapporto di derivazione e discendenza. Provvisto così di un solido testo, dopo opportune modificazioni agli ultimi due drammi Wagner potè passare, acceso di nuovi entusiasmi, alla composizione musicale, partendo naturalmente dal prologo. Composto in poco più di quattro mesi (dal 5 settembre 1853 al 14 gennaio 1854), L’oro del Reno fu finito di strumentare il 28 maggio 1854, per cedere subito, senza nemmeno essere messo in bella copia, alla tempestosa passione della Walkiria: passione furiosa e bruciante (in soli sei mesi di lavoro, alla fine del 1854, l’abbozzo era compiuto, anche se la partitura fu terminata soltanto il 23 marzo 1856), dalla quale Wagner uscì intimamente segnato dal dolore, ma con la orgogliosa certezza di aver composto la sua “”cosa più bella””.

 

Fra l’azione del prologo e quella della Walkiria, prima giornata della trilogia drammatica, passa molto tempo. Forse migliaia di anni. Un lungo tempo senza tempo, eterno, cosmico, non ancora umano, simile a una traversata immobile e silenziosa, durante la quale la maledizione che ha colpito gli dei per il colpevole concorso nel furto dell’oro è rimasta anch’essa immobile, sospesa minacciosamente sulle loro teste. Wotan, che a capo degli immortali abita malsicuro lo splendido, superbo Walhalla circondandosi dei valorosi eroi caduti in battaglia che a lui recano le Walkirie, si logora nella attesa di nuove imprese e spia angosciosamente i segni premonitori del crepuscolo che Erda, la madre Terra, ha profetato imminente e inesorabile.

In una caverna, nel cuore della selva, il gigante Fafner – dopo l’uccisione del fratello Fasolt unico possessore del tesoro e dell’anello del Nibelungo – mutatosi in drago, consuma la sua matta bestialitate custodendo in oziosa contemplazione il bottino maledetto del fratricidio.

Altrove, nel ventre della terra, il nano Alberich medita oscuri disegni per recuperare quel che, conquistato con la rinunzia e la maledizione all’amore, altri ha poi a lui con la frode sottratto; e spera nell’aiuto di una stirpe ancora non nata, ma di prossima creazione, originata dalla violenza e dalla paura, madre dello scellerato Hagen che incontreremo nel Crepuscolo degli dei: l’uccisore di Sigfrido.

La rete del destino, filata ciecamente dalle Norme e governata con impotente saggezza dalla madre di tutte le cose, Erda-Wala, avvolge ormai tutti.

Come Alberich, contro Alberich, Wotan non è rimasto nel frattempo inoperoso. Se la redenzione dalla colpa è a lui negata (non potendo il padre degli dei assolvere se stesso nè recuperare l’anello), sarà una stirpe nuova e coraggiosa, i Welsunghi, frutto di un pensiero di libertà e di un atto d’amore, a ottenerla per sè, squarciando la trama malefica e impedendo così la rovina che già incombe: una stirpe di uomini mortali generata da Wotan in una ardita discesa sulla terra, da cui sorgerà trionfante l’eroe puro che non conosce la paura e la colpa, Sigfrido, il protagonista delle giornate che seguiranno.

Questi gli antefatti e gli sviluppi, come li apprenderemo nel corso dell’opera. Risuonato solennemente in orchestra alla fine dell’Oro del Reno nel simbolo musicale della spada apportatrice di vittoria che il padre ha destinato ai suoi discendenti, il pensiero di Wotan diventa azione nella Walkiria. E lo diventa anzitutto col racconto dell’origine e dei primi passi della stirpe dei Welsunghi, attraverso la storia dolorosa di una coppia di gemelli ricongiunti dall’amore e votati alla morte. La triste storia di Siegmund e Sieglinde occupa l’intero primo atto. Si tratta già di un vertice assoluto dell’arte wagneriana, per economia e forza drammatica, un piccolo dramma all’interno del dramma più vasto: solo in rapporto ad esso comprensibile appieno, eppure autosufficiente e distinto, musicalmente grandissimo, di una grandezza appassionata e sconsolata insieme.

Ma una volta avviata, l’azione di Wotan gli si ritorcerà contro. E Wotan diventerà egli stesso, con le contraddizioni, i nodi insolubili della sua anima, dell’azione il centro, il catalizzatore del dramma. La peripezia, quale si compie nel secondo atto, è data dalla raggiunta coscienza della necessità di un duplice vincolo: desiderare ardentemente ciò che è proibito, per dover poi proibire ciò che si è desiderato. Apertamente lo riconosce Wotan, alla fine, quando chiede a se stesso e alla Walkiria: «Dunque tu facesti quel che così volentieri io desideravo di fare… e che pure a non fare un doppio fatto mi costringeva?» – Troppo tardi: sempre più preso nei lacci di un dissidio interiore irreparabile; Wotan dovrà infierire, suo malgrado, su una ferita che sanguina come carne viva piagata in eterno. Di qui, la sua tragedia, vera e grande.

Così, il disperato tentativo di liberarsi del dio, all’inizio gioioso e fidente, conducendo inevitabilmente all’errore e al male, si muta in dolore, passando attraverso la collera, il furore, la smania; e, altrettanto inevitabilmente, nel desiderio di perdersi definitivamente, di annullarsi nella completa incoscienza della morte, vivendo e accettando il proprio destino.

Nella Wlakiria, la statura tragica della figura di Wotan domina su tutti, ma non incontrastata. La moderna grndezza di Wagner drammaturgo sta proprio nell’aver rappresentato sulla scena la lotta intima di Wotan con se stesso (un vero monologo interiore) in un contrasto fra Wotan e i suoi «doppi», tutte diverse «parti di sé» che in lui convivono, siano esse proiezione di sue aspirazioni oppure presenze oscure che tendono a imporsi autonomamente. Tali, rispettivamente, Siegmund e Sieglinde da un lato, Fricka dall’altro; in mezzo a questi due poli, in posizione emergente e ambigua al massimo, Brunilde, la Walkiria che dà il titolo alla prima giornata. Anche Brunilde, infatti, figlia prediletta di Wotan e di Erda, è una parte di Wotan, l’espressione pura e profonda della sua volontà contrapposta al suo sapere: «Al volere di Wotan tu parli, se tu a me dici quel che tu vuoi: chi sarei io, se il tuo volere non fossi?», riconosce ella stessa all’inizio della seconda scena del secondo atto. Ma quando la fiamma d’amore, che in lei splendeva di luce riflessa, alimentata dalla pietà (che è la forma più alta d’amore), si accende di luce propria, e Brunilde disubbidisce a Wotan per compiere quel che a lui, pur desiderandolo, non è concesso di compiere, così facendo ella non soltanto aiuta inconsapevolmente (o consapevolmente?) il corso del destino, che tutto sovrasta; con quell’azione assume anche un corpo e un’anima propri, umani in tutti i sensi: un carattere completamente individuale. Da «parte», sia pur «eterna», di Wotan, diviene creatura viva e autosufficiente, «l’Altro, non più me stesso» a cui Wotan stesso aspira. Il ritrovarsi al fine di due personaggi così profondamente mutati e diversi – un padre che deve punire e una figlia in rivolta innocente innalza a proporzioni veramente gigantesche la scena conclusiva dell’opera. Brunilde non ritroverà mai più davanti a sè il padre; ma per comprendere appieno le terribili conseguenze della sua scelta, dovremo attendere la terza scena del primo atto del Crepuscolo degli dei, il racconto straziante di Waltraute e il dialogo fra le due sorelle. Solo allora il dramma di Wotan potrà dirsi compiuto, e avrà inizio quello di Brunilde, fino alla catarsi tragica della catastrofe finale.

 

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Nella Walkiria il linguaggio musicale wagneriano basato sulla tecnica dei Leitmotive (alla lettera “”motivi conduttori””, ovvero figure musicali cui è affidata la funzione di caratterizzare personaggi, situazioni, idee, sentimenti e così via, stabilendo la continuuità del processo musicale attraverso associazioni e trasformazioni sempre mutevoli) realizza definitivamente quella sintesi drammatico-musicale che fu la massima aspirazione di Wagner compositore. Se nell’Oro del Reno, prologo in cielo e negli abissi, la musica doveva rappresentare un dramma originato da forze elementari (nani, giganti e dèi) che si scontravano frontalmente come realtà esterne e contrapposte, nella Walkiria, dove accanto agli dèi fanno la prima comparsa sulla terra uomini e semidei, i contrasti da esterni divengono interni, interiori, psicologici. Abbandonata la sfera del mito, si entra in quella assai più complessa della psicologia: e necessariamente il linguaggio musicale si fa più continuo, più morbido, più sottile, più evocativo, più ambiguo, dissimulando in una trama più occulta, meno univoca, le accensioni liriche, le grandi aperture sinfoniche, gli stessi procedimenti tematici, ritmici e armonici. E proprie nell’adeguamento a questi nuovi fini (che già di per sè escono dalla cornice romantica e ottocentesca in cui erano inseriti), la musica acquista una capacità nuova e perfetta di farsi veicolo di emozioni, stati d’animo, pensieri e azioni, sviluppandosi dal dramma ma in pari tempo conglobando il dramma nella unità superiore dell’architettura sonora e della concezione stessa dell’opera musicale.

La superba unità del linguaggio musicale wagneriano deriva non soltanto dalla indissolubile e magistrale coesione di tutti i suoi elementi ma anche dalla rete sfuggente di relazioni e stratificazioni ch eviene di cintinuo intrecciata all’interno della totalità dell’opera. Quella “forma riflessa” che è alla base del dramma si estende anche alla musica potenziandosi nella prismatica pregnanza di un linguaggio in cui tutto è rispecchiamento: concentrazione, pur nella identità del divenire musicale, di passato, presente e futuro.

Qui non abbiamo più un modo di procedere per blocchi, scandito da cesure che separano parti chiuse e autosufficienti (come avviene nel melodramma tradizionale e, almeno in parte, anche nei lavori precedenti di Wagner), ma spazi aperti a dismisura che si perdono in lontananze irraggiungibili, travolti dalla piena della musica: sabbie mobili che scompaiono nelle infinite pieghe e contropieghe del giuoco orchestrale. Il tempo musicale non coincide con quello reale nè, sovente, con quello dell’azione. E un tempo senza misura, che ora spinge furiosamente in avanti (si pensi all’incalzante succedersi di eventi nel secondo atto), ora si consuma come fiamma viva nel momento stesso in cui trascorre (il primo atto, con i suoi silenzi carichi di attesa), ora si blocca e rimanda al passato (di qui il grande valore delle reminiscenze, della poetica della memoria, vero cardine dell’estetica wagneriana), ora anticipa e prefigura il futuro (l’ultima, grandiosa scena dell’opera). E una continuità circolare che annulla e ricrea su altri piani il concetto stesso di tempo, coinvolgendo direttamente la capacità di percezione dell’ascoltatore.

Ciò che rende tanto difficile quanto esaltante la comprensione di questa musica (fermo restando il suo fascino immediato e travolgente) sta proprio nella sua plurima dimensione formale e temporale: la contemporaneità di eventi legati l’uno all’altro strettamente, dipanata in un processo lineare e irreversibile ma sempre in relazione con ciò che è stato e ciò che dovrà accadere. I Leitmotive sono il mezzo che orienta questo immenso caleidoscopio musicale, ma essi non sono passibili di irrigidimenti schematici. Si vuoi dire che nessun ritorno, nessuna simmetria, nessuna ripetizione significa mai, neppure allusivamente, approdo in una zona già conosciuta, identica a se stessa, a noi familiare: nel momento in cui crediamo di averlo afferrato, il significato ci sfugge, o meglio ne richiama infiniti altri. Rispetto alla parola e all’azione, cui Wagner la volle integrata nella sua concezione del dramma musicale come Gesamtkunstwerk (ossia opera d’arte totale), la musica mantiene così la sua superiore, definitiva autonomia.

Parrà dunque incredibile che questa ardita aspirazione artistica si relizzi nella Walkiria rispettando scrupolosamente l’unità di tempo della tragedia classica? Da un tramonto a un altro tramonto, là dove il giorno cede alla notte, racchiuso in tre atti e undici scene, l’arco drammatico dell’opera segue una parabola la cui traccia proviene da un’unità non soltanto drammaturgica, poetica, musicale, ma soprattutto spirituale, mistica: violentemente eppure dolcemente conducendoci dalla dimora di Hunding, dove si consuma il disperato atto d’amore di Siegmund e Sieglinde, alla selvaggia montagna rocciosa ove due altri atti d’amore, ancor più disperati, hanno luogo: il doppio sacrificio di Siegmund e di Brunilde. Ma tante altre vicende si compiono nel frattempo: in luoghi che non sono più luoghi di un’azione, ma momenti di un itinerario spirituale e umano che, con le sue ansie e le sue angosce eterne, tutti ci riguarda.

Gunther Neuhold / Orchestra sinfonica dell’Emila-Romagna “Arturo Toscanini”
Teatro Comunale di Ferrara, Stagione lirica 1982-83, 24/01/1983

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