Richard Wagner – Grande sonata in la maggiore op. 4; Fantasia in fa diesis minore op. 3; Polka in sol maggiore

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Ci voleva proprio la ricorrenza del centenario della morte per indurre gli esecutori e il pubblico ad occuparsi delle composizioni non teatrali di Wagner, di quelle composizioni cioè che, pur avendo una collocazione marginale nella sua produzione, illuminano aspetti non inessenziali della sua formazione e della sua personalità. I1 luogo comune, a bella posta alimentato dall’interessato stesso, secondo il quale Wagner sarebbe stato un “”autodidatta”” o, peggio, un “”dilettante”” (così lo definì perfidamente Eduard Hanslick; e Nietzsche, nella sua collera, non mancò di rincarare la dose), è ormai destinato a cadere per lasciare il posto a una visione più esatta delle cose, confortata da indubitabili dati di fatto. Del resto, come si fa a considerare autodidatta un artista che, fin dall’età della ragione, pose Beethoven, Mozart e Bach alla base della propria educazione musicale, che li studiò con accanimento e profondità, fino a renderseli familiari nelle più intime fibre? Neppure dal punto di vista dell’insegnamento cosidetto scolastico Wagner fu in senso proprio un autodidatta: giacché studiò, quanto gli bastò, con un ottimo e apertissimo maestro, Christian Theodor Weinlig, Kantor della Thomaskirche di Lipsia, il posto che una volta aveva ricoperto Johann Sebastian Bach; e da lui apprese tutto quanto gli era necessario sotto il profilo tecnico e accademico.

La Fantasia in fa diesis minore e la Grande Sonata in la maggiore sono appunto i frutti di questo periodo di studio e nello stesso tempo una testimonianza esemplare dell’influsso di Beethoven quale si era maturato sotto la guida esperta di Weinlig: composizioni dunque giovanili ma non per questo impersonali o acerbe, nelle quali è anzi possibile riscontrare chiare linee di tendenza verso le scelte future di Wagner.

La Grande Sonata in la maggiore op. 4, composta nei 1632, è in questo senso una sfida lanciata attraverso il pianoforte alla grande tradizione classica, di cui Beethoven rappresentava, sotto ogni punto di vista, l’apice (non è senza significato ricordare che nello stesso anno Wagner lanciò una analoga sfida alla tradizione sinfonica con la sua Sinfonia in do maggiore). Tutto qui appare in una duplice, ambigua fisionomia: ricalco di un modello e insieme suo drastico superamento. La perfetta conoscenza dello stile e della forma dei classici si palesa proprio attraverso le violazioni, le aperture, le sospensioni che Wagner introduce e sviluppa: si ascolti soltanto il geniale ponte che collega la fuga a tre voci, che sostituisce il consueto Scherzo, al Finale in forma di primo tempo di Sonata, quasi a voler suggerire un ritorno ciclico all’inizio. Così il tema principale del primo movimento è un puro tema sinfonico, ricco di effetti orchestrali non sempre adeguatamente trasposti sul pianoforte tè proprio questa densità di scrittura che rende difficile l’esecuzione); toccato il culmine dell’animazione dinamica e sonora, che coincide con il punto di massima tensione lormale, esso si calma e a poco a poco si spegne, preparando in tal modo l’atmosfera raccolta e dolente dell’Adagio “”molto e assai espressivo””, il momento di estrema concentrazione lirica dell’intera Sonata. Riconoscere qui. soprattutto nel percorso armonico ruotante intorno a fa diesis minore, gli accenti propri del Wagner maturo, è tanto stuzzicante quanto istruttivo.

In fa diesis minore, tonalità eminentemente beethoveniana e poi carissima ai romantici, è anche la Fantasia op. 3, che Wagner ebbe il permesso dal suo maestro di comporre nel 1831 come ricompensa per la pazienza e la diligenza dimostrata nei suoi lavori scolastici. Cogliendo la palla al balzo, il diciottenne Richard si sbizzarrì a elaborare, senza nessuna preoccupazione formale, recitativi e melodie appasionate, che assomigliano un po’ alla piena di una sorgente prima che essa abbia trovato il torrente adatto a contenerla e a guidarla verso il corso solenne di un fiume. Non è un caso che Wagner, retrospettivamente, considerasse questa composizione “”più sua”” della Grande Sonata, e la giudicasse degna di un allievo di Spohr: il che vuol dire più teatrale e romantica insieme, insomma una vera “”fantasia””.

Quanto alla Polka in sol maggiore, che chiude il programma, si tratta di una composizione posteriore, scritta nel 1853 per Mathilde Wesendonk, colei che non molti anni dopo avrebbe incarnato agli occhi di Wagner, l’ideale dell’amore sublime e infelice, consumato attraverso la rinuncia e il dolore. Ne sarebbe nato il Tristano, come ognun sa; e forse per questo fa una strana impressione pensare dedicata a Mathilde questa pagina breve, garbata e spiritosa, una specie di bagatella arguta messa giù in bella calligrafia per far piacere, e riverente omaggio, a una bella e gentile dama.

Rina Cellini
Istituto di cultura germanica di Bologna

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