Richard Wagner – Die Walküre, opera in tre atti

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La prima giornata


Concepito nel 1848 con i primi abbozzi del mito nibelungico, il progetto wagneriano di fare delle gesta e della morte di Sigfrido la materia di una grande opera eroico-romantica in tre atti si era venuto strada facendo sempre più ampliando, fino ad abbracciare una grandiosa azione drammatico-musicale in quattro parti che, dalla catastrofe finale, risaliva agli antecedenti più vicini (le origini e le imprese dell’eroe) e a quelli più lontani (il furto dell’oro e la maledizione del nibelungo Alberich, argomento del prologo L’Oro del Reno). La necessità di questo ampliamento, dovuto a ragioni drammaturgiche prima ancora che musicali, si individua in una lettera del 20 novembre 1851 a Franz Liszt, che è utile richiamare qui per La Walkiria.

Dopo aver composto il testo poetico della Morte di Siegfried (il futuro Crepuscolo degli Dei) e successivamente quello del Giovane Siegfried (poi semplicemente Siegfried), Wagner si era reso conto che troppi riferimenti agli antefatti erano semplicemente narrati o affidati alla immaginazione degli ascoltatori, senza essere svolti adeguatamente sotto il profilo drammatico. Nel Giovane Siegfried, due momenti specialmente soffrivano del difetto di non essere stati precedentemente rappresentati: le vicende del lungo racconto di Brünnhilde dopo il suo risveglio (atto terzo) e quelle della scena fra Alberich e il Viandante nel secondo atto, e fra il Viandante e Mime nel primo. «Ti puoi facilmente figurare» – scriveva dunque Wagner – «che non solo la riflessione artistica, ma soprattutto la magnifica situazione, materia per eccellenza adatta alla scena, mi hanno fatto decidere, come vedrai esaminando minutamente l’argomento. Immaginati lo strano, fatale amore di Siegmund e Sieglinde; Wotan in rapporto profondamente misterioso con questo amore; e quando, nel dissidio con Fricka, nel suo represso furore condanna a morte Siegmund, a tutela del costume. Infine la sublime Walkiria Brünnhilde, quando indovina l’intimo pensiero di Wotan, si ribella al dio e viene da lui punita. Figurati questa ricchezza di motivi come li accenno nella scena fra il Viandante e Wala [cioè Erda, nella prima scena del terzo atto], poi in modo più esteso nel suddetto racconto di Brünnhilde, presi per argomento di un dramma che preceda i due Siegfried: comprenderai allora che non solo la riflessione, ma l’entusiasmo anzitutto mi fecero concepire questo disegno». Analoghe convinzioni Wagner aveva espresso scrivendo alcuni giorni prima all’amico Uhlig: «Pensa a tutto questo dal mio punto di vista, con la straordinaria ricchezza di situazioni riunite in un dramma coerente, e avrai una delle più commoventi tragedie: una tragedia che presenta agli occhi e agli orecchi tutto ciò che il mio pubblico deve apprendere in modo da intendere chiaramente, nella più larga accezione, la ‘Giovinezza’ e la ‘Morte di Siegfried’».

Se il poema della Walkiria precedette quello dell’Oro del Reno (entrambi furono scritti di getto nella seconda metà del 1852), la composizione musicale cominciò, come era naturale, dal prologo; gettando le basi di una gigantesca architettura che si sarebbe sviluppata, secondo i principi di una nuova concezione drammatico-musicale, nelle successive tre giornate. Composto in poco più di quattro mesi (dal 5 settembre 1853 al 14 gennaio 1854), L’Oro del Reno fu finito di strumentare il 28 maggio 1854; per cedere subito, senza nemmeno venir messo in bella copia, alla tempestosa passione della Walkiria. In soli sei mesi (27 dicembre 1854) l’opera poteva dirsi abbozzata da cima a fondo (una legione di «selvaggi scarabocchi indecifrabili», scriverà Wagner, buttati giù a matita, su fogli singoli, con la me dia e l’accompagnamento, e alcune guide per la strumentazione). E anche se per completare la partitura occorreranno molti mesi, fra interruzioni forzate e impicci nei soliti, eterni guai familiari e finanziari (di fatto essa non venne ultimata prima del 23 marzo 1856), la tensione del fervore creativo non si allei neppure per un istante, rafforzata com’era dalla chiarezza conc tuale e stilistica già premessa alla realizzazione.

Wagner si separò dalla Walkiria «con dolore», e con la convinzione che si trattasse della «cosa più bella che io abbia mai composto» (ad Antonio Pusinelli, il 28 aprile 1856). Se non più bella, certo la più matura e intima, perfettamente compii in se stessa, individualmente, anche in seno al ciclo che l’accoglie tra l’alba e il tramonto di una nuova, tragica giornata.

 

La Walkiria comincia là dove finisce l’Oro del Reno. Eppure fra l’azione del prologo e quella della prima giornata dalla sagra scenica L’Anello del Nibelungo passa un tempo indefinito, mitico, non ancora umano: immobile e silenzioso, e tuttavia carico di attese. Un tempo senza tempo, durante il quale la maledizione che ha colpito gli dèi per il colpevole concorso nel furto dell’oro è rimasta sospesa come una minaccia sulle loro teste. Wotan abita malsicuro lo splendido, superbo Walhalla, circondato dai valorosi eroi caduti in battaglia che a lui recano le Walkirie; e spia angosciosamente i segni premonitori del crepuscolo, che Erda, la madre Terra, ha profetato imminente e inesorabile. In una caverna nel cuore della selva, Fafner trasformatosi drago custodisce in oziosa contemplazione il bottino maledetto del fratricidio, che lo ha reso unico possessore del tesoro dell’anello del Nibelungo. Nel ventre della terra, il nano Alberich medita oscuri disegni per recuperare quel che aveva conquistato con la rinunzia all’amore, e che altri poi gli avevano sottratto con l’inganno; e spera nell’aiuto di una stirpe ancora non nata, originata dal suo odio e dalla sua paura. La rete del destino, filata ciecamente dalle Norne e governata con impotente saggezza dalla madre di tutte le cose, Erda-Wala, avvolge ormai tutti in un groviglio inestricabile.

Come Alberich, contro Alberich, Wotan non è rimasto nel frattempo inoperoso. Se la redenzione dalla colpa è a lui negata, sarà una nuova stirpe di eroi creata da un pensiero di libertà e da un atto d’amore a ottenerla in sua vece, squarciando la trama malefica e impedendo così la rovina che già incombe. Risuonato solennemente in orchestra alla fine dell’Oro del Reno nel simbolo musicale della spada apportatrice di vittoria che il padre ha destinato ai suoi discendenti, il pensiero di Wotan diviene azione nella Walkiria. In una ardita discesa sulla terra egli ha generato la stirpe dei Welsunghi: da una coppia di gemelli ricongiunti dall’amore dovrà sorgere l’eroe puro che non conosce la paura e la colpa: Siegfried, il redentore.

Sin qui gli antefatti. Ma in realtà il tempo indefinito che separa il prologo dalla prima giornata è forse solo un attimo. Così fa credere il preludio orchestrale che apre l’opera, l’uragano che spezza di colpo la quiete orrorosa dell’attesa. Sotto l’aspetto drammatico esso ha il compito di evocare naturalisticamente una tempesta, dalla quale un uomo ferito, smarrito e braccato, cerca disperatamente riparo. Ancora non sappiamo che egli è Siegmund, il giovane Welsungo inseguito da nemici implacabili, i Neidinge, per aver difeso una fanciulla costretta a nozze infami, e che la casa che gli offre riparo è quella di Hunding, il più feroce dei suoi avversari. Ma se ascoltiamo la musica, essa dice che la figura della tempesta che squassa la scena con realistica forza rappresentativa non è altro che una trasformazione del motivo della lancia di Wotan, simbolo del suo potere e nello stesso tempo della sua schiavitù, su cui si inarca il tema di Donner che verso la fine dell’Oro del Reno aveva accompagnato con un temporale purificatore la decisione del dio. Il riferimento e lo sviluppo di un materiale tematico già denso di significati hanno il compito non soltanto di conferire continuità all’azione ma anche di rendere più profondi i nessi interni al dramma per mezzo della musica: quel che Wotan alla fine dell’Oro del Reno intuisce e medita (l’infamia della colpa e il desiderio di riscatto) diviene conseguentemente azione visibile all’inizio della Walkiria.

La capacità di penetrazione psicologica della musica, per mezzo di un simbolismo di pregnanza inaudita, raggiunge nel primo atto della Walkiria vertici supremi. L’apparizione di Sieglinde, sposa infelice di Hunding, il conforto che ella offre allo straniero esausto con atti di ieratica nobiltà in una atmosfera di mistero (il pensiero corre a Elettra che incontra il fratello Oreste, a lei ancora ignoto) sono associati a un motivo inquieto, che si ripete ossessivamente, statico e circolare, nei primi e secondi violini. Questo motivo si presenta in modo costante a due parti che procedono in terza, quasi a voler legare sotto il segno della compassione e dell’ansia di amore la coppia gemella. Nel dialogo della prima scena, riempito più di sguardi e di silenzi che di parole, il motivo di Siegmund in fuga dei violoncelli si congiunge a quello della compassione di Sieglinde. Nonostante l’alto grado di concentrazione emotiva, non vi è in essi nulla di eroico: questi motivi sono figure musicali chiuse che non hanno avvenire, emblemi di vittime predestinate alla sconfitta per colpe altrui. Fin dall’inizio la storia di Siegmund e Sieglinde, piccolo dramma all’interno di un dramma più vasto, è avvolta da un presagio di sventura: tanto più triste e commovente perché infiammata da una fugace illusione di gioia.

Un brusco contrasto viene introdotto nel passaggio dalla prima alla seconda scena del primo atto, illuminando un altro tratto dalla tecnica compositiva wagneriana nell’Anello. Spentasi l’eco del canto appassionato di Siegmund, un motivo rude annuncia l’arrivo di Hunding, in due stadi successivi: prima piano, quasi velato, come una minaccia incombente; poi forte, con tutta l’energia di un peso sonoro massiccio, affidato alle tube che squarciano la scena dominata finora dal canto melodioso degli archi. Un veleno mortale è contenuto nel ritmo inesorabile e negli accordi ribattuti che lo contraddistinguono: la tonalità di do minore anticipa con significativa corrispondenza l’impianto della marcia funebre del Crepuscolo degli Dei. La relazione è sotterranea, ma precisa, eloquente: Hunding è l’angelo della morte di Siegmund, come Hagen lo sarà più tardi, a giochi ormai fatti, per Siegfried, il figlio di Siegmund abbandonato da Wotan.

 

Da un tramonto a un altro tramonto, nello spazio di tre atti e undici scene, l’arco drammatico della Walkiria estende e moltiplica le relazioni, fondandosi però su un ordine rigoroso la cu unità è data dalla funzione esplicativa della musica. La sua capacità di descrivere e chiarire non solo i conflitti più intricati che si producono all’interno dei personaggi ma anche eventi drammatici che si svolgono contemporaneamente in luoghi lontani e invisibili ai nostri occhi, tocca l’apice nel secondo atto segna una svolta nel cammino della intera Tetralogia. Se ne ha un esempio già a partire dal preludio orchestrale. Giù, sullo terra, la fuga della coppia ebbra d’amore e orgogliosa dello spada riconquistata, sulle cui tracce corre implacabile come una belva ferita Hunding con i suoi uomini e la muta dei cani lassù, in alto, nel mondo «superiore» degli dèi, l’incontro luminoso e gioioso di Wotan con la figlia Brünnhilde, che appar nelle sue vesti di vergine guerriera al grido bellicoso delle Walkirie, nucleo tematico della celebre cavalcata del terzo atto. Ma una volta promettentemente avviato, il piano concepito di Wotan si ritorcerà contro di lui, isolandolo al centro di contraddizioni e nodi sempre più insolubili. La peripezia del dramma solo accennata da oscuri e dolorosi presagi nel primo atto, e compie tragicamente nel secondo, quando Wotan diviene consapevole della necessità di un duplice vincolo: desiderare ardentemente ciò che egli stesso è costretto a proibire. Così, il tentativo del dio di liberarsi dalla colpa originaria di cui si è macchiato conduce inevitabilmente all’errore e all’impotenza, per mutare da ultimo in rinuncia e annientamento.

Nella Walkiria la statura tragica della figura di Wotan domin su tutti, ma non incontrastata. L’intuizione fondamentale di Wagner, frutto di chiara necessità nell’economia dell’opera, sta proprio nell’aver rappresentato sulla scena la lotta individuale di Wotan attraverso il contrasto con gli altri personaggi, i quali sono parti di lui stesso in quanto ne incarnano le aspirazioni e gli obblighi, ma nello stesso tempo se ne separano per divenire figure dotate di autonoma consistenza. Se infatti Fricka è la consorte legittima, custode della morale e dei patti su cui si fonda il potere di Wotan (e come tale può reclamare e imporre i diritti della legge e del costume violati dalla coppia incestuosa), anche Brünnhilde, la figlia prediletta generata a Wotan da Erda, è una parte di lui: l’espressione più pura e profonda del suo volere contrapposto al suo sapere. A riconoscerlo è lei stessa all’inizio della seconda scena del secondo atto: «Al volere di Wotan tu parli, se tu a me dici quel che tu vuoi; chi sarei io, se il tuo volere non fossi?». Ma paradossalmente è proprio il riconoscimento di questa identità a provocare prima il contrasto, poi il distacco. Disubbidendo a Wotan per compiere quello che a lui, pur desiderandolo, non è concesso, Brünnhilde non soltanto aiuta inconsapevolmente il corso del destino che tutto sovrasta, ma acquista anche un carattere umano completamente individuale: da «parte», sia pur «eterna», di Wotan, diviene figura viva e autosufficiente, «l’Altro, non più me stesso» a cui Wotan aspira.

Il momento cruciale di questa trasformazione si ha nel grande monologo di Wotan dopo il dialogo con Fricka (seconda scena del secondo atto: e si può notare di passaggio che la lunga, prolissa «scena di vita coniugale», giudicata sovente una caduta dall’elevato stile tragico della Walkiria, ha proprio il compito di preparare la terribile esplosione di questo monologo). Alle ragioni di Fricka Wotan non può opporre ormai che una cupa meditazione. Dall’orchestra tre tromboni fanno udire impietosamente il tema della maledizione di Alberich. Poi, su un prolungato pedale di fagotti e clarinetto basso, si staglia, ripetuto cinque volte di seguito dai violoncelli, un nuovo motivo, tortuoso e pesante, emerso dal dialogo precedente con Fricka: espressione della collera, della disfatta e infine dell’angoscia che attanaglia il dio. Wotan, indica la didascalia, «lascia cadere il braccio con gesto d’impotenza e abbassa il capo»; le sue parole escono come un flebile sussurro: «nel mio stesso laccio mi sono preso, io il meno libero di tutti!». Brünnhilde, il capo appoggiato sulle ginocchia del padre, ascolta la confessione con ansioso interesse. Nel lungo recitativo che segue ritornano i punti salienti delle passate vicende, accompagnati dai temi che le commentano; ed ecco, al culmine della rivelazione, il grido lancinante di folle speranza in un eroe che liberi gli dèi dal patto funesto si muta in disperazione e anelito di morte: das Ende, das Ende, la fine, la fine. Come un’eco, quando la seconda volta il grido si ritorce nelle spire di un ferale do minore, risuona il tema di Erda, figura del destino e della fine. Alla figlia che invano ha tentato di opporsi, smascherando la contraddizione di Wotan, il padre comunica brutalmente la sua decisione: Siegmund morrà trafitto da Hunding, e sarà Brünnhilde a raccoglierlo sul campo di battaglia, come si addice a un eroe.

Prima che l’atto precipiti in catastrofe fulminea, coinvolgendo la Walkiria nel furore di Wotan che non risparmierà neppure Hunding, una scena giustamente famosa, quasi isolabile nella continuità dell’azione, dà un saggio illuminante di quella sintesi drammatico-musicale perseguita da Wagner con la coesione degli elementi linguistici in una rete di relazioni multiple, dove passato presente e futuro sembrano concentrarsi nell’unità del divenire musicale. Questa scena (la quarta) è l’annuncio di morte che Brünnhilde, secondo il volere di Wotan, reca a Siegmund. Scortata dal tema del Walhalla, dopo che le tube avevano ricordato con ineluttabilità il motivo del destino, la Walkiria si avvicina lentamente a Siegmund, lo contempla a lungo, poi lo chiama per nome e gli rivela il suo fato. Egli risponde assumendo su di sé nel canto la melodia che all’inizio della scena era risuonata in orchestra (trombe sostenute dai tromboni) come annuncio di morte, quasi a voler accettare spontaneamente quel destino. Tre temi pregni di profondo significato sono concentrati in questo istante, a ognuno è affidato a un elemento specifico del linguaggio musicale: armonia (accordi del destino), melodia (canto di morte), ritmo (pulsazione funebre dei timpani). Con impercettibile trapasso, quasi seguendo un corso naturale di pensieri, Siegmund chiede che sarà di Sieglinde; e quando apprende che a lei non è consentito seguirlo nel Walhalla, con un improvviso moto di ribellione rompe l’incanto e rifiuta il suo destino, minacciando di uccidere la sorella con la spada Notung. Il clima della scena cambia di colpo, come se forze represse si scatenassero con la massima violenza, in un attimo bruciante. Mossa dall’amore e dalla pietà, Brünnhilde si svela e promette di salvare i fratelli, accordando a Siegmund la vittoria. Convulsamente, tutto converge ormai sugli effetti della sua decisione: lo slancio della compassione cede ai ritmi guerreschi, che annunciano l’imminente battaglia. Quando essi si placano, e prima che l’epilogo si compia, ci accorgiamo che Sieglinde dorme vegliata da un motivo ipnotico che già prefigura il sonno di Brünnilde stessa alla fine dell’opera.

 

Alla progressiva accelerazione dell’azione nel secondo atto sino alla fulminea conclusione corrisponde, nel terzo, una maggiore distensione, dovuta anche al dilatarsi della dimensione sinfonica via via che si infittisce la trama dei Leitmotive, vecchi e nuovi. Con un collegamento tematico diretto, secondo un principio già osservato di concentrazione temporale, l’inizio del terzo atto riporta al clima tempestoso, spazzato dalla furia degli elementi. del preludio e della fine del secondo. A sipario chiuso, non abbiamo però un preludio questa volta, bensì un’azione musicale colta nel suo svolgersi, la cavalcata delle Walkirie, contemporanea alla cavalcata selvaggia con cui Brünnhilde ha portato via Sieglinde dal luogo della battaglia alla fine, appunto, del secondo atto. In questa pagina fin troppo celebre e saccheggiata, plastica rappresentazione di un fanatismo ingenuo, Wagner eccelle come scaltrito manipolatore di effetti, tra intrecci contrappuntistici densissimi e variopinta ricchezza di timbri. In tale groviglio orchestrale svettano le otto voci delle Walkirie, spinte audacemente verso l’acuto, fra spasimi di cromatismi, trilli e contrappunti ritmici, combinate insieme a formare un grandioso «coro», come mai finora era accaduto nella prima giornata, o nel prologo. Senza soluzione di continuità la cavalcata si ricollega alla fuga di Briinnhilde, dietro a cui Wotan in preda a tremendo furore per la sua disubbidienza ha scatenato un furioso uragano: simbolo, ancora una volta, di ben più profonde tempeste dell’animo.

Ma prima che i due personaggi si ritrovino per l’ultima volta uno di fronte all’altro, così intimamente mutati e contrapposti, una scena di capitale importanza per lo sviluppo della vicenda nelle giornate future contribuisce non solo a definire il ritratto umano di Brünnhilde ma anche a giustificare che sia proprio la Walkiria a dare il titolo alla prima giornata. Incalzata da Wotan, Brünnhilde ha invocato invano protezione dalle sorelle, non per sé, ma per la donna prostrata al suo fianco, nel cui grembo già vive l’eroe predestinato. Il canto con cui Sieglinde si rivolge alla Walkiria affinché l’abbandoni alla sua sorte ha accenti di nobile semplicità e di rassegnazione: anche il passato per lei non è che vano rimpianto, spento Siegmund. Ma alla rivelazione di Brünnhilde («un welsungo ti cresce in grembo») Sieglinde scoppia in un grido disperato e gioioso insieme: «salva mio figlio! … salva la madre!». Con un estremo slancio vitale, che la musica amplifica in giubilo, la decisione è presa: Sieglinde fuggirà da sola, recando con sé i frammenti della spada Notung, verso oriente, dove Fafner custodisce il tesoro del Nibelungo e Wotan non ardisce inoltrarsi; Brünnhilde intanto lo tratterrà, ricevendone lei sola la punizione. L’addio fra le due donne non è un congedo senza speranza, per quanto struggente: nel canto di Brünnhilde che rivela il nome dell’eroe risuona per la prima volta in forma completa il tema di Siegfried, imperiosamente svettante. Ad esso Sieglinde risponde con estatica riconoscenza, al colmo della commozione: «O augusta meraviglia! O vergine sublime!». Ma più che le parole, conta il motivo su cui esse sono intonate all’unisono con l’orchestra: un motivo nuovo, assoluto, enigmatico, immodificabile, che riapparirà una volta soltanto alla fine del Crepuscolo degli Dei, a sigillare la conclusione della Tetralogia. O forse un nuovo inizio.

Quel che segue è un altro, assai diverso, commiato. Nella quiete che ha seguito l’uragano il crepuscolo cede a poco a poco alla notte. Wotan e Brünnhilde si scoprono nuovamente soli, l’uno di fronte all’altra. La punizione è stata inflitta, con dura severità: ripudiata e degradata dal suo rango di Walkiria, addormentata in sonno inerme, la ribelle sarà preda del primo uomo che la sveglierà. Attesa e silenzio, ancora. Mentre l’orchestra tace, Brünnhilde chiede a se stessa prima ancora che a Wotan dove stia la colpa di cui si è macchiata. Nell’aver disubbidito a un comando empio, imposto da Fricka? O nell’aver ubbidito alla voce del cuore, alla volontà più intima di Wotan? Così la collera del dio si placa, per lasciare posto a una dolorosa rassegnazione, venata di tristezza. In questo dialogo, ennesima ricapitolazione di fatti accaduti, molti temi riappaiono per scomparire definitivamente dall’orizzonte della Tetralogia, quasi appartenessero ormai a un lontano ricordo. Alla elaborazione sinfonica spetta il compito di portarli a compimento, esaurendone la funzione; al canto di farsi non più veicolo del dramma, ma espressione di puri sentimenti, ormai sottratti al divenire dell’azione e contemplati a distanza. A poco a poco emerge di qui una forza nuova, che cresce attorno a freschi nuclei tematici e si sviluppa in figurazioni sempre più consolidate, dai riflessi luminosi, di genuina carica vitale. Questa trasfigurazione conduce a un graduale cambiamento di atmosfera, sfociando nella catarsi che prepara il finale dell’opera: la toccante perorazione di Brünnhilde che impone a Wotan le ragioni del suo agire, l’amore come giustificazione della disubbidienza.

L’addio di Wotan e l’incantesimo del fuoco compiono l’opera con una densissima concentrazione tematica messa al servizio dello scioglimento del dramma. E pochi finali, anche altrettanto grandiosi, hanno l’evidenza espressiva e l’indipendenza di questo. Cedendo alla richiesta di Brünnhilde, Wotan acconsente a che la rupe sui cui ella dormirà un lungo sonno sia protetta da una cortina di fuoco: solo un eroe potrà osare di varcarla. L’addio alla figlia nasce da un’intima, duplice rinuncia (verso di lei e verso se stesso); ma si apre alla speranza e alla commozione nel pensiero radioso del venturo Siegfried, «il solo più libero di me, dio!». A questo punto un oceano di chiarore pervade l’orchestra, per suggellare, nella definitiva consacrazione alla luce, la vittoria dell’amore. Dopo quest’ultima esplosione sinfonica ritorna la pace, con una trama musicale più distesa e ampia, sovrastata dalla melodia ipnotica e cullante del sonno incantato di Brünnhilde, fino all’episodio delicatissimo del bacio che addormenta la Walkiria. Loge, dio del fuoco, evocato dalla lancia sul tema del patto che rende Wotan signore degli dei, guizza per circondare Brünnhilde addormentata. Fuoco magico e sonno magico sono ormai tutt’uno.

Le ultime, solenni parole di Wotan («Chi della mia lancia teme la punta mai non traversi il fuoco!») risuonano sul tema di Siegfried. È un comando o solo una profezia dell’eroe senza paura che, dopo aver spezzato la lancia di Wotan con la spada Notung, verrà a risvegliare Brünnhilde? Con un lampo di ambiguità Wagner ci congeda dalla prima giornata dell’Anello del Nibelungo. Mentre gli ottoni amplificano, grandiosamente, il tema di Siegfried, i violoncelli indugiano accorati sul canto dell’addio di Wotan. Come a un richiamo, a un segnale stabilito, appare ancora una volta il motivo del destino, ma perso, consumato quasi, nelle faville del fuoco. Nel tumulto dei sentimenti, sconfitto ma non vinto, Wotan sparisce dalla nostra vista per sempre, volgendosi ancora una volta indietro, attraverso il fuoco. Egli è già un Viandante. Intanto Brünnhilde dorme, in attesa che dalla fiamma che incendia la notte silenziosa sorga, un giorno, l’amore.

Riccardo Chailly / Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Ente autonomo del Teatro Comunale di Bologna, Stagione d’Opera 1988-89

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