La poesia del sogno
L’azione dei Maestri cantori di Norimberga è una libera invenzione di Wagner. Per quanto vasta fosse la materia a disposizione per la rappresentazione dell’antica Norimberga, del suo ambiente e della corporazione dei maestri cantori, al cui centro spiccava la ben nota figura storica del poeta e calzolaio Hans Sachs (1494-1576), Wagner attinse a numerose fonti ma non si rifece ad alcun modello, fino a che non si chiarì l’intera concezione drammatica e musicale dell’opera: il che avvenne in un arco di tempo durato oltre vent’anni, dal luglio 1845 (data del primo abbozzo in prosa) all’ottobre 1867, allorché la partitura fu ultimata (ma la stesura del testo poetico risaliva all’inizio del 1862 e la composizione del Preludio, nel quale erano esposti, o per meglio dire caratterizzati, i temi principali dell’opera, alla metà dello stesso anno).
Nei Maestri cantori la cornice storica che racchiude l’opera è essenziale. La Norimberga del Cinquecento, che Wagner ricostruì con fedeltà meticolosa tanto nella descrizione scenografica quanto nelle atmosfere d’ambiente, è uno sfondo che condiziona la rappresentazione musicale.Al suo interno – cornice nella cornice – si colloca la corporazione dei maestri cantori, con le rigide regole trascritte nella Tabulatura, la figura severa del Censore, convenzioni e rituali austeri che Wagner reinventa e radicalizza sulla base però di una realtà storica precisa. Tutto ciò non poteva rimanere senza influenza sugli elementi linguistici e sul tono dello stile musicale.
Lo stile musicale dei Maestri cantori di Norimberga costituisce una sfida e una riflessione sui principi drammatico-musicali wagneriani, soprattutto se messi in relazione con la gestazione allora in corso della Tetralogia e con l’intermezzo tragico del Tristano. Nata nelle intenzioni come “”grande opera comica”” dai risvolti satirici, i Maestri cantori divennero un’opera in tre atti nella quale, a tacere del largo impiego dei cori e della imponenza delle scene di massa, il linguaggio musicale oscilla tra uno stile di conversazione assai flessibile e articolato e una serie reiterata di sospensioni in forma chiusa, che arrestano il corso dell’azione e lasciano spazio all’effusione lirica nel canto e al commento con funzione ora narrativa ora psicologica in orchestra. Queste scelte sono motivate dalla concezione drammaturgica. I pezzi chiusi erano richiesti in primo luogo dalle situazioni che prevedevano una gara di canto, nella scuola dei maestri prima, davanti a tutto il popolo di Norimberga poi; e ciò determinò anche l’intervento del coro nella scena della baruffa che chiude il secondo atto e nel grande concertato finale. I monologhi sono il corrispettivo di queste parti: momenti nei quali l’attenzione si sposta dall’ambito pubblico, corale, a quello privato, individuale, e la tecnica del Leitmotiv torna a esercitare una funzione preminente di definizione psicologica. In questo senso la pagina isolata che rappresenta l’apice musicale dell’intera partitura, ossia il Quintetto del terzo atto, è non soltanto il punto di arrivo in cui si scarica la tensione accumulata nelle scene precedenti, ma anche il momento nel quale i destini individuali si compiono e si prepara il passaggio, dopo l’ultimo cambiamento di scena, alla dimensione pubblica dell’epilogo.
Se nell’opera spira un’aura antica, accarezzata da ricordi e da dolcezze remote, i conseguenti arcaismi di cui Wagner si serve sono, oltre che disposti in una griglia linguistica moderna, sottomessi anch’essi alla caratterizzazione drammatico-musicale. Arcaismi per così dire allo stato puro vi appaiono con chiara intenzione caricaturale nella rappresentazione meno leggera della aridità della corporazione dei maestri, di cui Beckmesser, il Censore, è insieme l’esponente più retrivo e il personaggio teatralmente più efficace: le sue critiche e le sue esibizioni, insieme buffe e patetiche, ostentano magistralmente piatti giri modali, colorature obsolete, accompagnamenti fiacchi e involuti, tanto nella serenata di sua creazione quanto nella deformazione della canzone del rivale. Non per nulla il suo strumento prediletto e inseparabile è il liuto. Anche la forte tendenza al diatonismo, ancora più appariscente dopo l’oceano cromatico del Tristano, è in relazione con la patina arcaica che riveste l’opera e con il mondo dei maestri cantori: Wagner lo adotta, già nel Preludio, come modulo espressivo della corporazione, ma lo investe di un’elaborazione compositiva che si estende fino a toccare il terreno della più avanzata trasformazione armonica, dove le infiltrazioni cromatiche rivelano l’aggressione di forze esterne, quelle dell’appassionato cavaliere Walther von Stolzing in primo luogo. Nel Preludio i due gruppi di temi, dopo essere stati esposti a sé, vengono elaborati sinfonicamente e contrappuntisticamente per culminare, nella ripresa, in una sovrapposizione che tende all’integrazione, alla saldatura e alla fusione. Così facendo Wagner riferisce anche simbolicamente i contenuti delle vicende drammatiche dell’opera; dal contrasto iniziale fra tradizione (i maestri cantori) e innovazione (Stolzing) alla conciliazione definitiva delle opposizioni: precisamente in una tradizione che si rinnova grazie all’ardimento amoroso del cavaliere e in una innovazione che s’inscrive a sua volta nella tradizione per mezzo della saggia mediazione di Sachs.
Lo stesso può valere per il ricorso a simbologie tonali ruotanti attorno al perno di do maggiore, tonalità originaria ed elementare, onnipresente nei momenti di svolta, nonché ribadita simmetricamente all’inizio e alla fine, come se provenisse da un vecchio libro di ricordi. Ma è soprattutto il contrappunto lo strumento che Wagner elegge a elemento compositivo fondamentale. Se la robusta polifonia dei Maestri cantori è il mezzo di espressione di una pluralità di voci che si contrastano e che premono per far sentire, spesso simultaneamente, le loro ragioni, la dottrina contrappuntistica consente a questa polifonia di non sfaldarsi nell’eterogeneità lacerando i fili sottesi alla trama, ma anzi di raccoglierli e di ricondurli a un centro unitario, globale. L’unità stilistica della partitura si fonda su questo magistero armonico e contrappuntistico. Da questo punto di vista la colossale fuga della baruffa che chiude il secondo atto, rappresentazione di un caos sovranamente ordinato, è il vertice di una piramide che ha agli angoli della base, altrettanto simbolicamente, i due corali che aprono e suggellano l’opera, nei quali la molteplicità delle voci si rovescia nell’omofonia e nell’insieme accordale.
Se i Maestri cantori dovevano essere, secondo le intenzioni originarie dell’autore, una commedia popolare a lieto fine con un sottointreccio amoroso, l’affievolirsi del tono comico è da mettere in relazione con il rilievo assunto dalla figura di Hans Sachs: la cui proverbiale arguzia e bonaria giovialità servono soltanto a mascherare una intensa, profonda malinconia. Assai più che personaggio storico, il Sachs di Wagner è un individuo che vive una duplice crisi di identità, umana e professionale. Mentre la crisi esistenziale è solo fugacemente toccata nel suo impossibile amore senile per la piccola Eva promessa a Walther (e qui, per motivare la rinuncia di Sachs, Wagner ricorre al brivido “”teatrale”” di un’autocitazione dal Tristano), quella professionale è di natura molto più sfumata e psicologicamente complessa, per quanto assolva anch’essa a una funzione drammaturgica. Sachs rappresenta, nel contesto del tema centrale dell’opera, ovvero il contrasto fra antico e moderno, il tramonto del vecchio mondo imbalsamato dei maestri cantori, ma al tempo stesso riassume in sé i termini di questo scontro. Presentato già nel primo atto come il mito vivente di una passata grandezza, egli difende la “”canzone dell’emancipazione”” dell’iconoclasta Walther von Stolzing per partito preso, per provocazione, per ribadire la propria superiorità e distinzione intellettuale: approvare sul serio quella “”scorticatura d’orecchi”” che tanto scandalizza tutti i suoi colleghi, certo non potrebbe. Tutto il comportamento di Sachs nel primo atto, del resto, è vagamente distaccato e demagogico, e anche un po’ snob. Rimasto solo, però, lo assalgono i dubbi e le incertezze: e si direbbe che gli uni e le altre li covasse dentro già da qualche tempo. Il profumo del lillà nella calda sera d’estate (non una sera qualunque, ma la notte di San Giovanni quando ci si abbandona ai sogni, e talvolta sognando ci si perde), la veglia notturna al chiarore della luna, gli eventi inattesi che si susseguono e che sembrano far precipitare le cose nella folle fuga dei giovani amanti (mentre sarà una fuga, ma musicale, a rimettere ogni cosa a suo posto), acuiscono la sensibilità di Sachs, la sua malinconia, che esploderà poi con durezza nel monologo sulla “”follia del mondo”” del terzo atto. Perfino la comicità irresistibile della scena con Beckmesser nel secondo atto, con la canzonetta da trivio opposta alla sua alata serenata, nasconde una profonda amarezza, che si rifugia nei doppi sensi maliziosi su Eva, le scarpe e il Paradiso. Questa malinconia è originata dal fatto che Sachs, il leggendario poeta calzolaio, 1′””usignolo di Norimberga””, si sente ormai superato dai tempi e incapace di far fronte alla ventata di giovinezza e di novità introdotta con brutale sicurezza dal canto d’amore di Walther. Serve indirettamente a confermare questa immagine uno dei momenti più toccanti dell’opera: quando, nel terzo atto, al suo arrivo sulla prateria il popolo intona a una sola voce il corale della Riforma Wach’ auf!, una delle sue composizioni più celebri, Sachs viene colto da una vertigine improvvisa, come se quel canto gli ricordasse i tempi lontani della giovinezza della sua arte e di quella dei maestri cantori.
Il compito di Sachs diviene così quello di impedire la fine, di rischiarare il crepuscolo che già si annuncia imminente. A ben guardare è la medesima situazione nella quale si trova Wotan di fronte all’impavido Sigfrido: solo che qui, con altre implicazioni, la soluzione è diversa, non tragica. Prima di coronare questo compito in modo esplicito nella allocuzione finale davanti al popolo di Norimberga, Sachs lo realizza privatamente insegnando a Stolzing non soltanto come si compone una vera canzone da maestro ma anche perché le regole dei maestri cantori debbano essere rispettate nella sostanza: esse sono le leggi eterne della forma equilibrata e perfetta, ravvivata da contenuti nuovi e spontanei; giacché l’opera del poeta non è sognare, ma saper interpretare e fissare i propri sogni, promuovendosi al rango di creatore. Nella scena cruciale del vero ammaestramento (la seconda del terzo atto) Wagner si immedesima di volta in volta nelle ragioni dei due personaggi a confronto, riflettendo nel contempo sui principi e sui criteri della propria arte di poeta e di compositore. Da questa seduta autoanalitica nasce la sintesi di una canzone che rispecchia punti di vista all’inizio fra loro lontani, poi sempre più ravvicinati, infine totalmente fusi in unità. L’atto rituale si compie nel battesimo della nuova aria, che Sachs officia con particolare solennità, affrancando anche David, il suo tenero apprendista, da ogni ruolo subalterno. Che non si tratti
semplicemente del riconoscimento di una nuova aria secondo l’uso del maestro bensì dell’atto di nascita di una nuova arte e di una nuova fede lo dimostra la citazione del corale di San Giovanni Battista, risuonato, intonato dai fedeli in chiesa, all’inizio dell’opera. Dopodiché, nel sublime Quintetto che segue, Giovanni Sachs può compiere la sua personale uscita di scena: sovrastato dal canto arioso ed estatico di Walther ed Eva finalmente ricongiunti, il suo contrappunto declina sempre più verso una regione di tranquilla rassegnazione, di velata tristezza. Il suo è stato solo un bel sogno vespertino, destinato ad altri, illuminato però dall’orgoglio di aver riaffermato forse per l’ultima volta che “”anche l’eterna fronda della giovinezza”” ha bisogno, per verdeggiare, del “”premio del poeta””.
Alla malinconia di Sachs, ormai cosciente del proprio crepuscolo, sarà di conforto la constatazione, quando Stolzing intonerà pubblicamente la canzone del premio, che l’allievo ha appreso la lezione ed è dunque capace di aggiungere da solo, trionfalmente, secondo le regole, quell’ultima strofa che nella bottega del calzolaio si era rifiutato, in un estremo assalto di furia insofferente, di rivelare al suo maestro. Ma a questo punto il passaggio delle consegne è già avvenuto nel giubilo generale. L’anziano poeta può di nuovo indossare i panni ufficiali del vate e completare positivamente l’opera, annunciando, dal connubio di vecchio e nuovo, la rinascita della “”sacra arte tedesca””.
Jeffrey Tate / Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e Athestis Chorus diretto da Filippo Maria Bressan
Auditorium “G. Agnelli” Lingotto di Torino, 26° e 27° Concerto