Richard Wagner – Die Meistersinger von Nürnberg

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I maestri cantori di Norimberga. La poesia del sogno

 

L’azione dei Maestri cantori di Norimberga è una libera invenzione di Wagner. Per quanto vasta fosse la materia utilizzabile per la rappresentazione della antica Norimberga, della corporazione e dell’ambiente dei Maestri cantori, al cui centro spiccava la ben nota figura del poeta e calzolaio Hans Sachs (1494-1576), Wagner non si rifece ad alcun modello preciso, almeno fino a che non si chiari l’intera concezione drammatica e musicale dell’opera: e ciò avvenne in un periodo di gestazione durato oltre vent’anni. Il computo delle fonti è dunque interessante soprattutto per capire la distanza che le separa dalla forma definitiva e caratteristica raggiunta da Wagner nel suo lavoro e registrarne via via gli impulsi e le fasi.

Fu nel 1845, spigolando nella recente Storia della letteratura nazionale tedesca del Gervinus, che Wagner vide sorgere davanti a sé per la prima volta con chiarezza e vivacità la figura di Hans Sachs contornata dai Maestri cantori di Norimberga: in particolare lo colpì uno di questi, il «Censore», per il suo titolo e per le funzioni che gli erano affidate nella corporazione. Quel mondo, cosí radicato nella coscienza nazionale tedesca, gli era però familiare già da molto tempo. A soli quattordici anni, Wagner aveva assistito a una rappresentazione del dramma Hans Sachs di Ludwig Franz Deinhardstein, da cui Albert Lortzing aveva tratto l’opera omonima, che Wagner conobbe nel 1842. Del pari da lungo tempo gli erano noti il racconto di E.Th.A. Hoffmann Meister Martin der Küfner und seine Gesellen dai Fratelli di San Serapione (1819-20) e la poesia celebrativa di Goethe sulla Missione poetica di Hans Sachs. Alla fine del 1843 risultano acquisite alla sua biblioteca di Dresda altre tre opere sull’argomento: il libro del 1820 di Friedrich Furchaus su Hans Sachs, Über den altdeutschen Meistergesang di Jacob Grimm (1811) e l’edizione in due volumi delle opere di Sachs curata da Johann Gustav Büschning nel 1816-19.

E tuttavia piú che probabile che se non fosse stato per una fonte assai piú indiretta come quella del Gervinus mai Wagner sarebbe stato indotto a una reinvenzione poetico-musicale del mondo dei Maestri cantori; e a spingerlo a ciò non fu da principio il personaggio centrale di Sachs, che come si è veduto gli era oltremodo familiare, ma quello nuovo e sotto molti aspetti «inatteso» del Censore. La lettura del ponderoso ma arguto volume del Gervinus dovette fargli riaffiorare alla memoria il ricordo di un’esperienza tragicomica vissuta di persona a Norimberga la notte del 25 luglio 1835, una mite e profumata notte d’estate, quando Wagner fu testimone e attore di una rissa collettiva da lui stesso indirettamente provocata: essa fu senza dubbio il modello per la scena della baruffa che chiude il secondo atto dell’opera.

Subito dopo quella rivelazione, Wagner stese il primo abbozzo in prosa dell’opera, a Marienbad, dove si trovava per un soggiorno di cura, il 16 luglio 1845. Nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto trattarsi di un lavoro di genere «leggero», collegato all’opera che aveva appena terminato, Tannhäuser; seguendo il modello degli spettacoli teatrali dell’antica Grecia, alla tragedia della tenzone sulla Wartburg faceva seguito un dramma satirico di carattere allegro: al posto dei Minnesinger, i cantori d’amore del basso medioevo, subentravano ora i Meistersinger dell’età della riforma e del rinascimento. Questo primo abbozzo ha già contorni precisi per quanto riguarda l’azione e i personaggi principali e contiene anche in calce, quasi a titolo di motto, i versi famigerati che saranno mantenuti, sia pure dopo molti ripensamenti, nella versione definitiva del libretto: «Andasse anche in polvere il Sacro Romano Impero, / a noi resterebbe sempre la sacra arte tedesca».

 

2.

Un secondo abbozzo, ancora piú dettagliato e definito, fu steso a Vienna nel novembre 1861, ossia sedici anni dopo il primo. Che cosa era accaduto nel frattempo? Messo da parte il progetto «comico», che si era rivelato allora piú che altro un gioco distensivo in una vacanza dal servizio di direttore d’orchestra all’Opera Reale di Dresda, Wagner aveva composto Lohengrin (1845-48), portato a termine più della metà della tetralogia L’anello del Nibelungo e compiuto l’intera partitura di Tristan und Isolde, che proprio in quel torno di tempo attendeva di essere rappresentata a Vienna. Le difficoltà e i rinvii di questa esecuzione spinsero Wagner a intraprendere qualcosa di nuovo e di diverso, qualcosa che fosse lontano sia per contenuto drammatico che per forma musicale dalle passioni del Tristano. Cosí, improvvisamente, la sua attenzione tornò a posarsi sul vecchio progetto dei Maestri cantori di Norimberga, di cui si accorse di avere un ricordo sorprendentemente preciso. Non è improbabile che si riaffacciasse anche l’intenzione originaria di un collegamento con Tannhäuser, che da poco Wagner aveva rielaborato per la rappresentazione all’Opéra di Parigi, risoltasi, il 13 marzo 1861, in uno scandalo. Il 30 ottobre Wagner informava Schott, il suo editore, della decisione presa di scrivere «un’opera comica popolare», in stile leggero, ricca di vivacità e facile da mettere in scena. Inviando poi a Schott il 19 novembre una copia del secondo abbozzo, Wagner insisteva sul fatto che il protagonista, il gioviale e poetico Sachs, era questa volta un basso, come il suo buffo antagonista in veste di Censore, voci piú facili c,a reperire di un cosiddetto primo tenore o di un grande soprano c rammatico (il riferimento a Tristano era evidente); e che il largo impiego dei cori avrebbe dato modo ai teatri tedeschi, cui l’opera era in primo luogo destinata dato il suo argomento, di mettere in mostra la conclamata bravura dei loro complessi: dunque, un’operazione senz’altro vantaggiosa anche per l’editore, col quale Wagner s’impegnava a consegnare la partitura entro la metà nell’anno successivo. In realtà, non la terminò prima dell’ottobre 1867; e quel che ne risultò fu un’opera tutt’altro che «leggera», di mole enorme e di straordinaria complessità drammatica; nella quale, oltre a un soprano per una parte niente affatto agevole vocalmente, di primi tenori ne occorrevano non uno, ma addirittura due.

Il secondo abbozzo in prosa è assai piú esteso e particolareggiato del precedente e contiene anche una prima sceneggiatura dell’opera, con l’indicazione dei ruoli vocali e dei nomi dei dodici maestri che fanno corona a Sachs. Solo uno, quello del Censore, non figura ancora come Sixtus Beckmesser bensí come Hanslich: riferimento chiaro e piuttosto velenoso al famoso critico musicale allora imperante a Vienna e nemico dichiarato di Wagner; il quale ora si vendicava facendone la caricatura. Gran parte hanno in questo secondo abbozzo gli schizzi degli usi, dei costumi e delle regole di canto dei Maestri cantori, ricalcati su una fonte antica, la Cronaca di Norimberga di Johann Christoph Wagenseil (1697), e ripresi di sana pianta, nei particolari, dal capitolo ove si tratta delle «Origini, Usi, Utilità e Regole della Graziosa Arte dei Maestri Cantori». Di qui Wagner trascrisse con pignoleria e assoluta precisione le prescrizioni della Tabulatura, i diversi «falli» e le relative penalità, come pure la lista sterminata dei «toni» dei Maestri cantori, con connessa tutta la bizzarra classificazione dei diversi tipi di versi, rime, forme e melodie.

Tutto questo materiale consentiva di passare rapidamente alla stesura del testo poetico. Iniziato a Parigi alla fine di dicembre, esso fu terminato il 25 gennaio 1862 e stampato da Schott nel corso dell’anno.

 

3.

Il testo poetico del 1862 differisce da quello poi musicato in pochi punti, ma tutti estremamente importanti. E significativo che questi cambiamenti riguardino soprattutto le parti di sospensione lirica o drammatica, come il monologo della follia di Sachs nel terzo atto e la sua allocuzione finale, la canzone del premio di Walther e la relativa contraffazione di Beckmesser, il Quintetto; e quasi mai invece, salvo piccoli aggiustamenti, le scene d’insieme e di dialogo. Sembra che per queste parti culminanti, di speciale intensità e autonomia poetica, Wagner abbia seguito le esigenze della musica, via via che essa si precisava e si chiariva nei suoi sviluppi, modificando cosí la stessa concezione drammatica e poetica.

La composizione musicale fu iniziata alla fine del marzo 1862 a partire dal Preludio, nel quale sono esposti, o per meglio dire caratterizzati, i temi principali dell’opera. Essi sono raggruppati in due grandi blocchi: i temi che si riferiscono alla corporazione dei Maestri cantori e quelli che annunciano l’intromissione, cosí ricca di conseguenze, dell’appassionato cavaliere Walther von Stolzing. I due gruppi di temi, dopo l’esposizione, vengono elaborati contrappuntisticamente e svolti secondo una tecnica sinfonica altamente sviluppata; per culminare, nella ripresa, in una sovrapposizione che sempre piú tende alla integrazione, alla fusione e alla saldatura totale. Cosí facendo Wagner non soltanto combina compositivamente le due tecniche della elaborazione sonatisticosinfonica e della variazione contrappuntistica – guardando chiaramente alla lezione dell’ultimo Beethoven – ma esprime anche simbolicamente i contenuti delle vicende drammatiche dell’opera: dall’iniziale contrasto fra tradizione (i Maestri cantori) e innovazione (Walther) alla riconciliazione definitiva delle opposizioni; e precisamente in una tradizione che si rinnova grazie all’appassionato ardimento di Walther e in una innovazione che s’inscrive a sua volta nella tradizione per mezzo della mediazione di Sachs.

Non è un caso che l’orchestrazione del Preludio – pagina divenuta quasi rappresentativa del «sinfonismo» di Wagner – richiedesse parecchio tempo, protraendosi fino all’inizio di giugno: Wagner era ben consapevole della sua complessità sia tecnicocompositiva che concettuale e quindi della sua importanza nella creazione totale. A questa tappa, che chiariva ormai il significato generale dell’opera, fece seguito una lunga interruzione. Si ripeteva per l’ennesima volta, come per un destino imperscrutabile, un rituale ben noto nella vita di Wagner. Ad assillanti problemi finanziari si aggiungevano questa volta gravi depressioni e crisi esistenziali complicate ancor piú dall’evolversi di nuovi rapporti: con il suo re, Ludwig di Baviera, da un lato; con Cosima, ancora moglie del suo piú caro e fidato collaboratore, Hans von Bülow, dall’ altro.

Solo nel febbraio del 1866 Wagner poté tornare ad occuparsi a tempo pieno dei Maestri cantori. E quando il 15 aprile 1866 si trasferí a Tribschen presso Lucerna, ritrovando come per incanto la pace e la serenità, ebbe la certezza che l’opera sarebbe stata completata. Seguendo il suo solito metodo di lavoro, che prevedeva prima la composizione per canto e pianoforte e poi l’orchestrazione, impiegò un anno e mezzo per ultimare la partitura, che fu pronta il 24 ottobre 1867.

Il 28 gennaio di quell’anno, intanto, durante la composizione e l’orchestrazione del secondo atto, aveva apportato l’ultimo ma sostanziale ritocco al testo poetico, riformulando l’allocuzione finale di Sachs davanti a tutto il popolo di Norimberga. Nella versione del ’62, questa allocuzione aveva assunto un vago significato pessimistico, evocando la visione di una fine ineluttabile dell’arte tedesca, di una decadenza culturale e civile irreversibile: Walther, che rappresentava la nuova arte tedesca (e cioè Wagner stesso, in quanto artista rivoluzionario e incompreso dalla sua nazione), non accettava la corona di Maestro e se ne andava via con la sua Eva; sicché il discorso di Sachs finiva per essere un epicedio a un mondo tramontato e sconfitto.

La nuova formulazione cambia radicalmente le cose, anche dal punto di vista drammaturgico. Sachs, completando l’opera, ritorna protagonista positivo e annuncia la rinascita della «sacra arte tedesca», che uscirà rafforzata dal connubio di antico e nuovo: Walther si sottomette e il popolo celebra l’impresa in un ottimistico tripudio corale, salutando nel calzolaio-poeta il suo caro protettore. Il vero protagonista, alla fine dell’opera, è cosí Hans Sachs: e Wagner stesso si identifica ora con Walther e con Sachs insieme.

Spogliata di ogni intento satirico, la chiusa definitiva dei Maestri cantori di Norimberga segna la vittoria della continuità e della tradizione in una armonica fusione di antico e nuovo. Può darsi che Wagner fosse stato spinto ad adottare questa conclusione dalle nuove condizioni politiche e sociali della Germania e dalla speranza di poter finalmente riuscire ad essere «l’artista di tutta una nazione»: il «buon genio» in favore del quale parla Sachs, l’illuminato Maestro cantore. E altrettanto vero però che questa conclusione realizza esattamente le intenzioni espresse in modo informale e conciso nel primo abbozzo in prosa del ’45: e da questo punto di vista I maestri cantori è essa stessa un’opera di conservazione e di innovazione.

 

4.

Il fatto che la versione definitiva del 1867, testo e partitura, lasci cadere il sottotitolo «grande opera comica» e opti piú semplicemente per la dizione «opera in tre atti», significa che Wagner si era reso conto che gli aspetti comici e caricaturali non erano piú cosí determinanti per la fisionomia del lavoro. La svolta dovette avvenire senza dubbio durante la composizione del Preludio, quando Wagner si accorse che nessun tema «comico» era fra quelli principali dell’opera; e ciò condizionò naturalmente anche la successiva elaborazione compositiva.

Lo stile musicale creato da Wagner per I maestri cantori di Norimberga costituisce una sfida e una riflessione sui propri stessi principi drammatico-musicali cosí come si erano venuti evolvendo durante il lavoro alla Tetralogia e soprattutto nel Tristano. Non per nulla, all’accusa di aver fatto un’opera comica mancata, si aggiunse quella di aver tradito la coerenza di un sistema musicale basato sulla tecnica del Leitmotiv e di aver allentato la tensione del Wort-Ton-Drama: in altri termini, di aver palesemente contraddetto l’estetica del dramma musicale. I maestri cantori è appunto un’«opera»; nella quale, a tacere del largo impiego dei cori e della imponenza delle scene di massa, il linguaggio musicale oscilla fra uno stile di conversazione estremamente flessibile e articolato e una serie reiterata di sospensioni liriche in forma chiusa, che arrestano il corso dell’azione e lasciano ampio spazio all’effusione melodica nel canto e al commento con funzione insieme espressiva e psicologica in orchestra. La tesi secondo la quale Wagner si sarebbe ricollegato all’opera tradizionale quasi smentendo in parte se stesso ha buon gioco nel citare, oltre a questi «pezzi chiusi» (non per nulla da sempre presenti nelle antologie wagneriane), i veri e propri concertati della fine di ciascuno dei tre atti e perfino quel momento che rappresenta musicalmente l’apice dell’intera partitura, il Quintetto del terzo atto: pagina tanto sublime quanto unica in tutto il teatro di Wagner.

Queste scelte sono motivate da precise condizioni drammaturgiche. Le parti chiuse sono richieste in primo luogo dalla situazione che prevede una gara di canto, nella scuola prima, davanti a tutto il popolo di Norimberga poi; e ciò determina anche l’intervento del coro, che assiste alla gara e la commenta. I monologhi sono il corrispettivo di queste parti: momenti nei quali l’attenzione si sposta dall’ambito pubblico a quello privato, individuale, e la tecnica del Leitmotiv torna ad esercitare una funzione preminente di definizione psicologica. In questo senso il Quintetto è non soltanto il punto di arrivo in cui si scarica la tensione accumulata nelle prime quattro scene del terzo atto ma anche il momento nel quale i destini individuali si compiono e si prepara il ritorno, dopo il cambio di scena, alla dimensione pubblica, corale dell’epilogo.

 

5.

Nei Maestri cantori è essenziale la cornice storica che racchiude l’opera. La Norimberga della metà del Cinquecento, che Wagner ricostruisce con fedeltà meticolosa tanto nella descrizione visiva – poche opere come questa si prestano a ripensamenti scenografici e registici – quanto nella caratterizzazione ambientale – dall’accenno a Dürer alla ronda del Guardiano notturno – è uno sfondo che condiziona la rappresentazione musicale. Cornice nella cornice, la corporazione dei Maestri cantori, con i suoi riti, le sue regole, le sue tensioni neppure troppo celate, le sue convenzioni, che Wagner reinventa sulla base però di una rigida realtà storica. Tutto ciò non poteva non influire sugli elementi linguistici e sul tono dello stile musicale.

Se nell’opera spira un’aura antica, di ricordi e di abitudini lontane, gli arcaismi di cui Wagner si serve sono calati in una sfera linguistica moderna e sottomessi alla caratterizzazione drammatico-musicale. Arcaismi per cosí dire allo stato puro vi appaiono, ma con chiara funzione caricaturale e collegati alla rappresentazione della aridità e della povertà della parte piú retriva della corporazione dei Maestri, di cui Beckmesser è l’esponente tipico: le sue esibizioni, che sono insieme buffe e patetiche, ostentano giri melodici modali, colorature obsolete, accompagnamenti miseri e involuti, tanto nella serenata di sua creazione quanto nella deformazione della canzone del cavaliere. Non per nulla il suo strumento prediletto e inseparabile è il liuto.

Sin dall’apparizione dell’opera è stata notata la forte tendenza al diatonismo, ancora piú palese dopo l’oceano cromatico del Tristano. Anche il diatonismo è in relazione con la patina arcaica che riveste l’opera e con il mondo dei Maestri cantori (già nei temi esposti nel Preludio): Wagner lo adotta come modulo espressivo della corporazione, ma lo investe di un’elalorazione compositiva che si estende fino a toccare il terrenc della piú avanzata e sottile trasformazione armonica; nei quale le infiltrazioni cromatiche rivelano l’aggressione di forze esterne, quella giovanile di Walther in prima fila.

Lo stesso può valere per il ricorso a simbologie tonali ruotanti attorno al perno di do maggiore, tonalità originaria ed elementare, onnipresente nei momenti cruciali, oltre che ribadita simmetricamente all’inizio e alla fine dell’opera. Qui è come se Wagner aprisse un vecchio libro di ricordi, e ne traesse gli elementi linguistici fondamentali per la sua reinvenzione: partendo e ritornando a quelli dopo essersi allontanato, e quanto, nelle sue escursioni di compositore moderno.

Ma è soprattutto il contrappunto lo strumento che Wagner elegge a elemento compositivo fondamentale. Se la polifonia dei Maestri cantori è il mezzo di espressione di una pluralità di voci che si contrastano e premono per far sentire, spesso simultaneamente, le proprie ragioni, la tecnica contrappuntistica consente a questa polifonia di voci di non sfaldarsi estraneandosi o lacerando i fili della trama; ma anzi, al contrario, li raccoglie e li riconduce a un centro unitario e globale. L’unità stilistica dell’opera si fonda su tale magistero contrappuntistico e armonico. Da questo punto di vista, la micidiale fuga della baruffa nel secondo atto, rappresentazione di un caos sovranamente ordinato, è il vertice di una piramide che ha alla base, altrettanto simbolicamente, i due corali che aprono e chiudono l’opera, nei quali la molteplicità delle voci tende a rovesciarsi nell’omofonia e nell’unisono.

 

6.

L’affievolirsi del tono comico è da mettere in relazione con il rilievo assunto, e ancora una volta dal punto di vista anzitutto musicale, dalla figura di Sachs. Descritto, nei primi abbozzi in prosa, come un personaggio gioviale e sempliciotto, non molto diverso dai colleghi Maestri cantori se non per l’aureola che lo sovrasta, Sachs diviene nell’opera una figura assai piú sfumata e psicologicamente complessa, nella quale la stessa proverbiale arguzia e l’autoironia – tratto, questo, accentuato da Wagner – servono soltanto a mascherare una intensa, profonda malinconia: segnata, per cosí dire, dalle angoscie e dai turbamenti cosmici di Wotan.

Assai piú che personaggio storico, inserito in un ambiente ricostruito realisticamente, Sachs è un individuo umano, che vive una duplice crisi di identità: esistenziale e professionale. Se la crisi esistenziale è fugacemente, ma non per questo meno chiaramente esposta nel suo impossibile amore senile per la piccola Eva Pogner (e qui, per motivare la resa di Sachs, Wagner adotta un escamotage senza dubbio efficace ma palesemente «teatrale», ricorrendo a una citazione dal Tristano), la crisi professionale è di natura molto piú intima e personale, per quanto assolva anche a una funzione drammaturgica. Si è già detto che da principio Sachs doveva rappresentare il tramonto del vecchio mondo dei Maestri cantori, schierandosi contro le regole accademiche e l’insensibilità borghese ma rimanendo nello stesso tempo travolto dalla furia iconoclasta di Walther. Strada facendo, però, Sachs venne assumendo altri lineamenti nel contesto del tema centrale dibattuto nell’opera, il contrasto e lo scontro fra antico e moderno. Ampliatosi il peso ideologico della questione, in veste prima poetica, poi musicale, Sachs divenne il vero protagonista dell’opera, riassumendo in sé i termini di questo scontro.

E verosimile che Sachs difenda la «canzone dell’emancipazione» di Walther nel primo atto, quella «scorticatura d’orecchi» che tanto scandalizza e irrita i colleghi (non si parla del censore Beckmesser, evidentemente prevenuto in quanto parte in causa), semplicemente per provocazione, per anticonformismo, per ribadire la propria superiorità e distinzione: approvarla sul serio, certo non potrebbe. Tutto il comportamento di Sachs nel primo atto, del resto, è vagamente provocatorio e demagogico, e anche un po’ snob. Rimasto solo, però, lo assalgono i dubbi: e si direbbe che quei dubbi egli li portasse già in sé da qualche tempo. Il profumo del lilla nella calda sera d’estate – non una sera qualunque, ma la notte di San Giovanni in cui ci si abbandona e si sogna, talvolta perdendosi -, la veglia notturna al chiarore della luna, i folli eventi che si susseguono e sembrano far precipitare le cose in una fuga dei giovani amanti (mentre sarà una «fuga», ma musicale, a rimettere ogni cosa a suo posto), acuiscono la malinconia e la sensibilità di Sachs, che esploderà poi nel monologo della follia del terzo atto. Questa malinconia è originata dal fatto che Sachs, il leggendario poeta-calzolaio, l’«usignolo di Norimberga», si sente ormai superato dai tempi e incapace di far fronte alla ventata di giovinezza e di novità introdotte con brutale sicurezza dal canto di Walther.

Già nel primo atto Sachs viene presentato come un mito vivente, imbalsamato e consegnato alla storia. Si diverte a tiranneggiare il povero David, insegnandogli le regole del canto dei Maestri in modo pedante e accademico; questi gli effetti, almeno a giudicare dalla «lezione» che David impartisce all’allibito cavaliere. Lo stesso Beckmesser, il cui parere non è affatto contraddetto dagli altri Maestri, lo dipinge come un poeta che fu grande sí, ma che ormai è capace soltanto di comporre «canzonette da trivio». E che cos’è se non una canzonetta da trivio quella che Sachs intona contro Beckmesser nel secondo atto? Anche qui, la comicità irresistibile della scena nasconde una profonda amarezza, che si rifugia nei doppi sensi su Eva, le scarpe e il Paradiso.

Per acuire il contrasto, serve a caratterizzare questa immagine di Sachs uno dei momenti piú toccanti dell’opera: quando, nel terzo atto, al suo arrivo sulla prateria il popolo intona a una sola voce il corale della Riforma «Wach’ auf!», una delle sue composizioni piú famose, Sachs viene colto da una vertigine, come se quel canto gli ricordasse i tempi lontani della giovinezza della sua arte e di quella dei Maestri cantori.

Il compito di Sachs diviene cosí quello di impedire la fine, di rischiarare il crepuscolo che già si annuncia imminente. E, in fondo, la stessa situazione in cui si trova Wotan di fronte a Sigfrido: solo la soluzione è diversa. Prima di suggellare questo compito in modo totalmente esplicito nella allocuzione finale, Sachs lo assolve insegnando a Walther non soltanto come si compone una vera canzone di Maestro ma anche perché le regole dei Maestri debbano essere mantenute intatte nella loro sostanza: esse sono le leggi eterne della forma ben costruita ed equilibrata, ravvivata da contenuti nuovi e spontanei; l’opera del poeta non è quella di sognare, ma di saper interpretare e fissare i propri sogni, e ciò distingue un sognatore da un creatore.

In questa seconda scena del terzo atto Wagner si immedesima di volta in volta nelle ragioni dei due personaggi a confronto, riflettendo sui principi e sui motivi della propria arte. Da questa seduta di autoanalisi nasce una canzone che rispecchia punti di vista all’inizio lontani, poi sempre piú ravvicinati, infine totalmente fusi in unità. Alla malinconia di Sachs, ormai cosciente del suo crepuscolo, sarà di conforto la constatazione – quando Walther intonerà pubblicamente la canzone del premio – che l’allievo ha appreso la ezione e che dunque è capace di aggiungere da solo, secondo le regole, quell’ultima strofa che nella bottega del calzolaio si era rifiutato, in un estremo assalto di insofferenza, di rivelare al suo maestro.

A questo punto però il passaggio delle consegne è già avvenuto. L’atto rituale si compie nel battesimo della nuova aria, che Sachs officia con particolare solennità, affrancando anche David, il suo apprendista, da ogni ruolo a lui subalterno. Che non si tratti semplicemente del riconoscimento di una nuova aria secondo l’uso dei Maestri bensí dell’atto di nascita di una nuova arte e di una nuova fede, lo dimostra la citazione del corale del Battesimo, risuonato in chiesa all’inizio dell’opera. Dopodiché, nel Quintetto che immediatamente segue, Sachs può compiere la sua uscita di scena: sovrastato dal canto arioso ed estatico di Walther ed Eva, il suo contrappunto declina sempre più verso una regione di tranquilla rassegnazione, di velata tristezza. Il suo è stato solo un bel sogno vespertino; illuminato, però, dall’orgoglio di aver riaffermato per l’ultima volta che «anche l’eterna fronda della giovinezza» ha avuto bisogno, per verdeggiare, del «premio del poeta».

 

7.

Wagner aveva pensato che l’opera dovesse essere rappresentata per la prima volta proprio a Norimberga. Ludwig II insisteva comunque per la Baviera, il suo regno: mai avrebbe tollerato una soluzione diversa. «Se ciò accadesse», scriveva a Cosima il 16 dicembre 1866, «crollerei a terra morto stecchito». Era inevitabile che la scelta cadesse da ultimo su Monaco, che offriva le migliori garanzie di riuscita in relazione alla complessità dell’allestimento. La prima rappresentazione ebbe cosí luogo il 21 giugno 1868 al Teatro Reale di Corte di Monaco e fu un successo grandioso, quale mai prima d’allora Wagner aveva ricevuto. Dal palco reale, in piedi accanto a Ludwig, l’autore si offri già dopo il Preludio all’applauso del pubblico, infrangendo ogni consuetudine ed etichetta. Subito dopo la prima circolò una caricatrura che immortalava l’evento, accompagnata dalla didascalia: «Orazio accanto ad Augusto». Dirigeva Hans von Bülow, che il re in persona aveva voluto a quel posto: e Wagner, che ne conosceva bene il valore, aveva accettato senza fiatare, nonostante i rapporti fossero piú che tesi per via di Cosima.

Annunciata già in quell’occasione come «opera nazionale», I maestri cantori di Norimberga non sfuggì alla strumentalizzazione, in ambo i sensi, di chi volle intendere quella dicitura anzitutto come pretesto per affermare la grandezza e la superiorità dell’arte e della nazione tedesca al di fuori del contesto proprio dell’opera e della musica. Quel che poi accadde nel nostro secolo in Germania è noto; quel che rappresentò e significò allora il teatro di Wagner, e I maestri cantori in particolare, non è questione che oggi qui ci riguardi.

«Opera nazionale» I maestri cantori di Norimberga lo è certamente per carattere, spirito, tradizione, linguaggio e stile. L’accenno alla «falsa maestà latina», a «fumo latino e latina frivolezza» che minaccerebbero di contaminare «ciò che è puro e tedesco», è un principio squisitamente estetico in cui Wagner credeva fermamente, e non da breve tempo: non per questo si augurava che schiere armate lo imponessero al mondo. Sapeva che prima o poi ci sarebbe riuscito da solo, con la sua musica. Del resto, come attesta una lettera di Cosima a re Ludwig del 1867, egli era ben consapevole che le parole finali di Sachs non si legavano intimamente con la vicenda e fossero piuttosto «un discorso del poeta al popolo»: nella cui sfera si giustificava anche il riferimento alla decadenza del Sacro Romano Impero – alla metà del Cinquecento – e al valore della «sacra arte tedesca» tenuta in vita dai Maestri cantori.

Resta però l’ambiguità sui motivi che spinsero Wagner a non sopprimere, come si proponeva di fare, l’allocuzione di Sachs. Noi propendiamo per una spiegazione di tipo drammaturgico e musicale, del tutto interna alla coerenza formale dell’opera. Ma Cosima dà un’altra versione. Fu lei, cosí racconta, a consigliare Wagner di mantenerla, protestando energicamente contro le sue ragioni. Per un giorno intero ne discussero insieme, e alla fine Wagner fu convinto: si rimise al lavoro, e fra le due e le tre del mattino del 28 gennaio 1867 stese da capo la conclusione.

Presumibilmente, era quella anche l’ora in cui Hans Sachs, insonne, già meditava sulla follia che agita il mondo, mentre poco lontano il cavaliere Walther von Stolzing, nel dormiveglia, concepiva senza saperlo una poesia di sogno.

Zubin Mehta / Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Maggio Musicale Fiorentino
49° Maggio Musicale Fiorentino

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