Richard Wagner – Der fliegende Holländer (L’Olandese Volante)

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Der fliegende Holländer (L’Olandese volante), quarta opera di Wagner, segna l’inizio vero e proprio del suo teatro. Non soltanto per la novità dei tratti stilistici e musicali che vi compaiono per la prima volta (alcuni dei quali costituiranno la base dell’estetica del dramma musicale), ma anche per la presenza di un intreccio che quasi ininterrottamente ne accompagnerà da ora in poi gli esiti: il tema leggendario del mito e l’idea poetica della redenzione. E attraverso questo intreccio che un motivo poetico legato a un’ossessione personale (la redenzione da una colpa atavica) diviene il simbolo stesso della liberazione del teatro musicale dalle sue convenzioni.

Le fonti autobiografiche relative alla genesi dell’Olandese volante contengono alcune significative discrepanze. Nello Schizzo autobiografico del 1843 Wagner riferisce del destino di viandante dell’Olandese volante      condannato per empietà a solcare in         eterno i mari fino a che una donna fedele fino alla morte non lo redimerà, come di una leggenda a lui già ben nota, che si era riaffacciata alla sua fantasia durante l’avventuroso viaggio per mare dell estate 1839 da Riga a Londra quando, nel pieno di una tempesta, la sua nave aveva fatto naufragio sulle coste norvegesi e i marinai gli avevano ricordato quella fosca storia di dannazione. Solo in seguito Wagner sarebbe venuto a conoscenza della versione di questa leggenda tracciata da Heinrich Heine      nel racconto compreso nel sesto capitolo delle Memoiren des Herren von Schnabelewopski (pubblicate nel 1834): e

“fu proprio il carattere eminentemente drammatico – un’invenzione di Heine – della redenzione di questo Assuero dei mari che mi indusse a sfruttare questa leggenda per trarne un soggetto d’opera”. Ma nella Comunicazione ai miei amici, che è del 1851, Wagner dichiarava che anche il racconto di Heine gli era già noto prima della sua partenza da Riga (tacendo peraltro di altre versioni letterarie inglesi e tedesche del soggetto, che ugualmente conosceva), senza che quella trattazione lo avesse specialmente eccitato, men che meno teatralmente. E nella sua autobiografia, Mein Leben, dettata a Cosima attorno al 1866, accennava soltanto al richiamo dei marinai ammainanti la vela durante la tempesta tra i fiordi norvegesi come allo spunto iniziale dell’Olandese volante, “”l’idea del quale a quel tempo già occupava costantemente il mio pensiero; ora, sotto l’influsso di queste nuove impressioni, essa assumeva un preciso colore poetico-musicale””.

Queste abili manipolazioni, non infrequenti in Wagner, sembrano obbedire qui a una strategia precisa. Se la versione del Mein Leben rappresenta una sorta di sintesi nella quale sono posti in primo piano gli elementi compositivi poetico-musicali (il mare in tempesta, il motivo iniziale del canto dei marinai), le altre due costituiscono la tesi e l’antitesi, punti speculari che, in fasi diverse della sua autoanalisi, a Wagner premeva mettere in evidenza: l’aspetto eminentemente leggendario, proiettato nel mito e radicato nella coscienza popolare (“”poema mitico del popolo””, secondo la sua definizione) e quello letterario, di ascendenza romantica (come “”romantica”” sarebbe stata denominata la sua opera) e poeticamente trasfigurato in senso drammatico. Questi due aspetti influenzarono dal fondo la stesura del libretto, che oscilla tra il tono di leggenda tramandata e rivissuta oralmente da un lato, e l’incursione nei territori psicologici del romanticismo (inteso come stato d’animo ed epoca storica artisticamente definita) dall’altro.

Wagner aveva concepito Der fliegende Holländer come un’opera in un atto, e così l’aveva composta tra il maggio 1840 e l’agosto 1841. Successivamente, per considerazioni pratiche, aveva ripiegato su una versione in tre atti, con l’aggiunta di due conclusioni d’atto convenzionali secondo tradizione e di un finale nel quale il tema della redenzione veniva risolto con una trasfigurazione di pretta marca romantica. E collocata nell’alveo romantico, sia pure in tumulto, questa versione ammorbidita sembrò alla prima rappresentazione, avvenuta a Dresda il 2 gennaio 1843 e accolta appunto da reazioni contrastanti. Ma nelle intenzioni originarie L’Olandese volante (assai prima di diventare, sull’onda dei successi parigini degli anni Sessanta, Le Vaisseau fantôme, e da noi Il Vascello fantasma) non doveva forse neppure essere un’opera, bensì una ballata scenica: il cui nucleo centrale era costituito non tanto dalla figura dell’Olandese (il quale entra in scena, spettrale, con un recitativo e un’aria di forza sia tenebrosa che eroica), quanto dalla visione onirica del personaggio femminile della redenzione, Senta, la prima di una lunga serie di eroine che muoiono per esorcizzare una redenzione impossibíle. La ballata di Senta fu, accanto agli sfondi ambientali per così dire naturalistici della vivace canzone dei marinai norvegesi e del sinistro coro in eco degli olandesi, il primo pezzo a cui Wagner pose mano dopo aver scritto il poema: al  tempo stesso centro psicologico dell’azione  e seme da cui prende le mosse a raggiera, per derivazione, il dramma.

Una volta fissati questi punti fermi, il materiale musicale si organizzò in una sequenza drammatica articolata in otto “”numeri””, dinamicamente collegati in dissolvenze incrociate e ordinati secondo una pregnante concentrazione di figure e di situazioni a contrasto, in modo da bloccare ogni possibilità di sviluppo conciliante: esempio unico di bruciante condensazione del dramma nella brama di dissoluzione e eli redenzione che lo pervade. A ciò concorrono per la loro parte i personaggi secondari, come lo schietto Daland e il veemente Erik, o la borghese nutrice di Senta e il nostalgico timoniere di Daland: funzionali con le loro diversioni (volutamente virate sul convenzionale perché estranee all’irrazionale della passione) a che il contrasto fondamentale tra soglio e realtà, bloccato e ruotante su se stesso, si acuisca fino al momento della catarsi.

Ciclicamente, il finale dell’opera si collega all’inizio e trova il suo suggello nell’Ouverture, che fu l’ultimo brano composto (5 novembre 1841) e il primo a essere rielaborato. Il gesto impetuoso, perentorio, squarciante che l’apre, non evoca soltanto la descrizione naturalistica di una tempesta che infuria, ma è piuttosto il segnale di una rabbiosa tabula rasa di tutto l’apparato operistico tradizionale. La contrapposizione, anche tonale, con il tema di Senta anticipa il contrasto che verrà, (non di figure, ma eli emblemi, di un’idea di redenzione che trascende i personaggi stessi). La riunificazione dei due temi – di Senta e dell’Olandese – alla fine ne costituisce l’esito più problematico. Nella prima versione tale trasfigurazione era lasciata tragicamente in sospeso, giacché il destino dei due personaggi si compiva per così dire nell’ideale, al di fuori della scena; averlo reso esplicito con il nuovo finale (anticipato nell’Ouverture) equivaleva a compiere un ulteriore passo verso lo scioglimento delle contraddizioni contenute nell’opera (e, più in generale, nella concezione wagneriana di dramma musicale). Quando dalla visionaria ballata scenica ci si incammina verso la piena conquista dell’opera d’arte totale.

The Voice Classic Opera n. 4, Novembre / Dicembre 2001

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