Richard Strauss
Sonata in mi bemolle maggiore, op. 18
per violino e pianoforte
Allegro ma non troppo
Improvisation (Andante cantabile)
Finale (Andante-Allegro)
La Sonata per violino op. 18 chiude la serie delle composizioni giovanili di Richard Strauss. Essa è anche l’ultima sua opera di quel periodo legata alle forme della musica strumentale assoluta e influenzata dalla tradizione classico-romantica così come questa si era venuta rispecchiando, nel clima culturale del secondo Ottocento, nell’opera sotto molti aspetti conclusiva di Johannes Brahms. Dopo la Sonata, composta nel 1887 ed eseguita per la prima volta a Monaco il 3 ottobre 1888 da parte del violinista Robert Herckmann e dell’autore stesso in veste di pianista, Strauss avrebbe imboccato con tenace risolutezza una strada del tutto diversa, quella del poema sinfonico, inaugurata alla grande, e proprio in quegli stessi anni, col Don Giovanni op. 20, pietra miliare, accanto alla coeva Prima sinfonia di Gustav Mahler, di una nuova era della musica moderna, cui Strauss, nonostante i periodici ritorni all’antico e al passato, decisamente e ineluttabilmente appartiene.
Se è vero che anche Strauss, come tutti i grandi, ebbe tre periodi creativi (una fase giovanile influenzata dalle forme strumentali classiche, una centrale dominata dal sinfonismo del poema sonoro, una matura racchiusa nell’amplissima produzione teatrale, cui si connettono anche le deviazioni e i ritorni della tarda età), il criterio di valutazione della Sonata per violino e pianoforte andrà cercato in riferimento all’epoca della sua composizione e al momento preciso della circoscritta ricerca del musicista.
In tal caso quest’opera densa e sfuggente ci apparirà come l’estrema propaggine del sonatismo da camera ottocentesco, costituito di intimità tormentata e di esteriorità ben conscia delle attese del pubblico: ossia dire infarcita di soluzioni a effetto (inutile dire quanto calcolate) e di virtuosismi nient’affatto limitati all’aspetto meramente strumentale ma incisivi anche sul piano dell’articolazione formale. Ciò spiega, anzitutto, la predilezione che i violinisti hanno per questo pezzo, senza dubbio codificabile come un saggio – uno degli ultimi, appunto, di questo genere – del più alto rango concertistico, stimabile fra le Sonate di Schumann e di Brahms da un lato e quelle di Franck e di Prokofiev dall’altro, cui rimanda per certa eterogeneità di linguaggio all’interno dell’impianto fondamentalmente classico. Nondimeno l’inquietudine di Strauss, quasi personalizzata nell’ossessiva presenza del pianoforte che amplifica a dismisura l’eloquenza già florida del violino, si manifesta in una tendenza a moltiplicare continuamente gli sviluppi del discorso anziché dirigerli verso una meta e fissarli per così dire in uno sguardo d’assieme riassuntivo e organico.
La frizione fra equilibrio della forma (nella disposizione, che è anche traccia distributiva, in tre tempi secondo lo schema convenzionale Allegro di sonata – Andante – Finale) e addensamento dei contenuti espressivi e delle figure tematiche (gli uni e le altre legati, come è noto, da relazioni immanenti nella forma classica) si rende evidente là dove il processo compositivo, anziché chiudersi unitariamente, si ramifica e si tende in avanti, fidando quasi soltanto nelle capacità mediatrici del gesto virtuosistico, della genialità improvvisatrice (addirittura pianificata nel secondo movimento, Improvisation) e dell’«inatteso» – apparentemente – colpo d’ala (si ascolti, nel Finale, il passaggio dall’Andante all’Allegro, scaltramente preparato affinché sembri imprevisto).
Allentandosi o viceversa tendendosi l’arco formale, le proporzioni classiche risultano alterate e richiedono continue suture. Le forniscono ora accenti decisamente declamatori, di una retorica prorompente, ora sospensioni liriche, di una assorta cantabilità (l’influenza di Brahms è chiara; ma l’istinto di Strauss, sensibile al richiamo dell’oasi dove tempo e spazio non esistono più, è ancora più illuminante); più spesso ancora abbiamo episodi di differente ispirazione fantastica, virtuosisticamente accesi, che proliferano insinuando un andamento rapsodico e affastellando effusioni, per poi magari subito dopo ritrattarle e oggettivarle in un anelito di purezza. Guardando più a fondo, sono proprio queste suture a produrre germi infettivi che conducono a morte l’organismo formale, spingendo verso il nuovo. Ma a questo punto Strauss si arresta, per ricominciare altrove il suo cammino.
Gidon Kremer / Oleg Meissenberg
Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze, Stagione d’autunno 1984