Lo spirito è vita. Strauss e Čajkovskij fra poema sonoro e sinfonia.
Richard Strauss uno e due
Con il folgorante Don Juan (Don Giovanni), composto tra il 1887 e il 1888 da un musicista appena ventiquattrenne, ed eseguito per la prima volta sotto la sua stessa direzione al Teatro di corte di Weimar 1’11 novembre 1889, si avviava la serie dei sette poemi sinfonici (o, come il compositore stesso preferiva, Poemi sonori, Tondichtungen) che per circa dieci anni avrebbero assorbito quasi tutte le sue energie creative, insieme con la stesura originaria della prima opera teatrale, Guntram: dopo Don Giovanni sarebbero venuti Morte e trasfigurazione (1888-89), Macbeth (1890, ma già realizzato in una prima versione nell’86), Till Eulenspiegel (1895), Cosi parlò Zarathustra (1896), Don Chisciotte (1897), Una vita d’eroe (1898). Quindi, dopo un certo rallentamento dell’attività compositiva coincidente con gli impegni direttoriali a Berlino, e colmato quasi esclusivamente da una notevole produzione liederistica, si sarebbe aperta l’epoca delle grandi opere teatrali: le recidive sinfoniche sarebbero state scarse, e non sempre tali da ritrovare la felicità dei capolavori della gioventù.
Il ciclo dei grandi poemi sinfonici di Richard Strauss, dunque, si offre all’attenzione come un’esperienza profondamente unitaria e ben definita anche cronologicamente. Basta un’occhiata ai titoli di questi lavori per cogliere immediatamente la convinzione estetica che vi è sottesa: ossia quella che l’atto compositivo sia anzitutto fatto poetico, poesia per sonos anziché per verba. In una lettera al direttore d’orchestra Hans von Bülow, giusto nell’agosto 1888, Strauss scriveva:
Se si vuol creare un’opera artistica unitaria per sfondo e costruzione complessiva, e se si vuole che essa agisca in senso plastico sull’ascoltatore, bisogna che ciò che l’autore intende dire appaia anche plasticamente agli occhi del suo spirito. Ciò è possibile quando esista lo stimolo di un’idea poetica, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno aggiunta all’opera come programma.
Poco più tardi, nel gennaio ’89: «La nostra arte è espressione, e un’opera musicale che sia priva di un vero contenuto poetico da esprimere (un contenuto, naturalmente, tale da non potersi in realtà rappresentare altro che con i suoni, ma che possa essere suggerito con le parole; solo sugrerito, però) a mio parere è tutto, fuorché musica». Concetti abbastanza chiari: l’idea poetica è assunta come ‘stimolo’, il programma è qualcosa che le parole possono suggerire (e soltanto suggerire).
Nel pieno di un vigoroso fervore compositivo, naturalmente orientato verso l’orchestra da molteplici esperienze professionali, Strauss scrisse la sua prima grande partitura sinfonica scegliendo un tema che come pochi altri era suscettibile di accogliere ed esprimere le istanze di un esuberante vitalismo: l’eros, l’istinto elementare del possesso e della sopravvivenza incarnato nel mito eterno di Don Giovanni. La fonte fu trovata nel poema Don Juan di Nikolaus Lenau (1802-50): a meglio chiarire il proprio intendimento, il musicista ne riportò sulla partitura tre citazioni, relative la prima all’inesausta ansia di piacere del protagonista, la seconda al desiderio sempre nuovo e sempre diverso di fronte a ogni donna, la terza alla ‘calma dopo la tempesta’, quando ogni desiderio prende apparenza di morte. Tutto ciò trovò traduzione sonora in un impianto formale libero, vagamente ricollegabile alla sonata e al rondò, percorso da un’invenzione tematica straordinariamente fertile, unita alle arditezze di un’armonia post-wagneriana e affidata a un ordito strumentale smagliante. Motivi, armonia, timbro, ogni parametro della costruzione assume un inumdiato valore gestuale (giusta quell’esigenza di evidenza ‘plastica’ di cui parlava Strauss): dal primo tema, figura musicale del protagonista che apre Don Juan con slancio irresistibile, a tutti i motivi secondari che via via si succedono a disegnare i diversi aspetti dell’ideale femminile, a quello, veramente memorabile, che i corni, introducendo l’episodio conclusivo del poema, stagliano contro il teso tremolo degli archi. Le rutilanti prospettive sonore e le intuizioni fantastiche della composizione richiedono a orchestra e direttore impavido virtuosismo; né questo è l’ultimo dei motivi della sua perenne presa sul pubblico. Proprio per il suo essere la prima grande pagina di una grande esperienza Don Juan sembra, rispetto alle successive prove di Strauss, proporsi come un’ideale epigrafe ribadita dalle parole di Lenau: «Avanti, dunque, verso nuovi trionfi, finché nei polsi robusti batta gioventú».
Herbert Blomstedt / Orchestra del Gewandhaus di Lipsia
Festival Verdi 2004