Teatro per uomini che vogliono imparare a vivere, ovvero l’arte di fare “”bonne mine à mauvais jeu””
In una classifica ideale degli epistolari più densi di spirito del Novecento, il carteggio tra Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss avrebbe probabilmente il primato. Per suo tramite è possibile non soltanto ricostruire passo dopo passo le tappe di una collaborazione stellare, il cui frutto furono otto capolavori di vario carattere e genere, ma anche seguire un corso di pensieri e di emozioni che abbracciano gli argomenti più disparati, e che pure hanno come punto di riferimento costante il valore universale del teatro. Di cui sia Hofmannsthal sia Strauss avevano un’idea elevata, ma non astratta: per loro, e sia pure da differenti punti di vista, il teatro con la sua tradizione doveva agire non come forza culturale, ma come messa in scena di eventi simbolici in cui il pubblico potesse immedesimarsi. Immedesimarsi pur mantenendo un distacco critico e una capacità di valutazione.
L’idea di una commedia musicale ambientata nella Vienna di Maria Teresa, memore di figure e situazioni dell’opera buffa italiana, partì dal librettista subito dopo la prima rappresentazione di Elektra (Dresda, 25 gennaio 1909). L’11 febbraio Hofmannsthal scriveva a Strauss da Weimar: «Qui in tre pomeriggi tranquilli ho preparato un canovaccio completo e tutto originale di un’opera, con decisi elementi comici nei personaggi e nelle situazioni, con una vicenda varia ed evidente quasi come una pantomima, con occasioni per parti liriche, burlesche, umoristiche e perfino per un piccolo balletto». Strauss vi colse al volo la possibilità di cambiare registro rispetto ai drammi che avevano rinnovato la tragedia antica con forti accenti di modernità, per far rivivere, nella fusione di elementi comici e seri, i fasti della commedia mozartiana, da lui amata sopra ogni altro modello che non fosse quello wagneriano. Sul nucleo originario di una semplice farsa che Hofmannsthal ricucì prendendo vari spunti da Molière (una ragazza è obbligata a scegliere uno sposo che non ama; dopo vari intrighi per raggirare lo sposo non voluto e il padre della ragazza, alla fine la figlia riesce a sposare il suo amato) si vennero intrecciando con gusto i fili di una trama galante in stile rococò, il cui strato interno era costituito dalla relazione tra la Marescialla, donna matura ma sensibile agli impulsi di un cuore ancora ardente, e il conte Octavian. La Marescialla, a cui il barone Ochs von Lerchenau, uomo rozzo e tronfio, ha affidato il compito di presentare alla promessa sposa secondo la tradizione la sua richiesta di matrimonio, destina proprio il giovane Octavian, di cui è l’amante, all’incombenza: inconsapevolmente (o consapevolmente?) preparando l’incontro fatale destinato ad avverare il presagio dell’imminente distacco. Fu così che nella sceneggiatura definitiva, alla cui elaborazione il musicista ebbe parte attiva, l’intrigo ai danni del barone Ochs, condito di scene burlesche e comicamente chiassose, assunse un’importanza meno centrale rispetto alla ricchezza di più alte componenti, divise equamente tra la rinuncia della Marescialla e il trionfo di Octavian, il “”cavaliere della rosa””. Per questo motivo anche il titolo, che in origine era Ochs von Lercbenau, venne mutato in quello ultimo, Der Rosenkavalier. Il 12 gennaio 1911, alla vigilia della prima rappresentazione, orami stabilita a Dresda il 26 gennaio, Hofmannsthal si accomiatava dal lavoro con questo post scriptum: «La Sua musica mi procura immensa gioia. È come una ghirlanda, tutta di graziosi fiori e così miracolosamente coerente nelle connessioni».
Per quanto la concezione originaria dovesse molto al teatro parlato, Hofmannsthal si rese conto che in uno stile di conversazione finemente intrecciato di poesia e prosa alla musica andava lasciato lo spazio di espandersi liricamente e di approfondire la psicologia dei personaggi nelle loro relazioni. Lo schema burlesco dell’intrigo fu così incorniciato da scene in “”forma chiusa”” che, partendo dall’appassionato duetto iniziale tra la Marescialla e Octavian, attraverso il monologo della Marescialla alla fine del primo atto e il duetto d’amore del secondo tra Octavian e Sophie al momento della presentazione della rosa, giungono ad assottigliarsi fino al terzetto e al duetto dell’epilogo, momento di sublime sospensione interamente affidata alla musica (è significativo che la melodia del duetto finale tra i due giovani innamorati fosse stata composta da Strauss prima che il poeta gli fornisse le parole). In questa oscillazione tra ragioni dell’azione e ragioni della musica, Der Rosenkavalier raggiunge una sintesi compiuta di varietà e armonia, di finzione e di verità. Ogni personaggio, più che tematicamente alla maniera wagneriana, è caratterizzato da un tono che gli è proprio, rispecchiato non solo nell’orchestra ma anche nel testo, scritto in un linguaggio tanto elaborato quanto spontaneo, non immune dall’uso di arcaismi, francesismi e soprattutto di forme dialettali viennesi. Come osservava l’autore stesso, era necessario che «ogni personaggio ritraesse contemporaneamente se stesso e il proprio rango sociale, attraverso un linguaggio che fosse il medesimo sulle bocche di tutti e tuttavia differente in ogni singolo personaggio, con una gamma abbastanza varia di possibilità: dal linguaggio assai semplice della Marescialla alla parlata concisa, elegante di Octavian, al linguaggio artificioso di Faninal e a quella originale commistione di pompa e grossolanità in bocca al buffo Ochs». Proprio Ochs è caratterizzato musicalmente dall’uso del valzer, che tocca un vero e proprio tripudio orchestrale nel finale del secondo atto.
Der Rosenkavalier è insieme opera della giovinezza e dell’età adulta, del tramonto e dell’aurora. Non descrive una parodia della vita (da questo punto di vista non è un’opera buffa), ma non costituisce neppure un’allegoria: è una commedia umana ritratta con assoluta imparzialità, con un misto impalpabile di ironia e di serietà. In questo, più che nelle forme e nell’ambientazione settecentesca (ma è chiaro che si tratta di un Settecento tanto stilizzato quanto intriso di riferimenti al presente), sta il suo aspetto mozartiano: come Mozart nelle Nozze di Figaro, così anche Strauss nel Cavaliere della rosa si identifica affettuosamente con ciascun personaggio, ad ognuno, perfino ai comprimari, assegnando una parte di verità nella grande commedia umana della vita. Non solo della vita. Anche della storia. Quando il tenore italiano intona alla fine del primo atto nella scena animata dell’udienza la sua grande cavatina, essa è insieme parodia di uno stile e momento di toccante straniamento. Il teatro vi è visto come eterno impulso a celebrare feste e giochi del vecchio genere umano, attraverso il sorriso e l’ilarità, la commozione e l’emozione, il raccoglimento e l’invenzione spettacolare. Niente perciò autorizza a rompere questo equilibrio elevando un tema o una situazione al di sopra del tutto. Il clima crepuscolare evocato dalla Marescialla nel suo monologo allo specchio verso la fine del primo atto («Tutto è un mistero, un grande mistero. Ed esistiamo per questo, per sopportarlo. E nel `come’ sta la vera differenza») si prolunga sì nel successivo tenero addio a Octavian, ma annuncia già il sorgere di un nuovo giorno, nel quale il “”cavaliere della rosa”” troverà il suo destino. In questo percorso va semmai riconosciuto il senso di un tempo ciclico, nel quale ogni cosa nasce, si sviluppa e muore, per ricominciare ogni volta da capo. All’idea tragica dell’eterno fluire del tempo si contrappone però l’idea goethiana della serena accettazione delle vicende della vita, di fronte alle quali, come riconosce ancora la Marescialla, «è inutile sdegnarsi, perché sempre così va il mondo». Parole che in bocca a Strauss, melodicamente fiorite, hanno il sapore della superiore rassegnazione di Faust, non dell’amaro cinismo di Mefistofele.
Rappresentare tutto questo fu la sfida del Cavaliere della rosa. Una sfida non ideologica né estetica, ma semplicemente umana e, in fondo, intrisa di dolente scetticismo. Dove ogni cosa che viene detta e fatta è ambivalente, perché esclude qualcos’altro. Dove il sentimento stesso della nostalgia profonda per un mondo perduto non deve indurre al lamento (semmai, solo al rimpianto per i ricordi e le illusioni del passato), bensì alla consapevolezza maturata dall’esperienza, come di cosa che voglia insegnare agli uomini a vivere o, in caso contrario, a fare “”buon viso a cattivo gioco””. “”È una mascherata viennese e nient’altro””, come dice, ben sapendo che non è vero, la Marescialla prima di lasciare libero il campo alla gioventù. Der Rosenkavalier è un’opera che avvince per la sua continua trasformazione, per la sua freschezza e leggerezza, nonostante l’estrema complessità della scrittura orchestrale. In essa sembra rispecchiarsi quella compresenza di elementi espressivi che ne è poi il tratto stilistico essenziale: estrosa polifonia di voci e di timbri, alternanza di slanci e di ripiegamenti, immersione ed emersione dall’inconscio nella superficie perfettamente levigata e luminosa dell’intelligenza. Un raggio di sole dorato in uno splendido crepuscolo.
Kirill Petrenko / Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e Coro Filarmonico “Ruggero Maghini” di Torino diretto da Filippo Maria Bressan
Auditorium “G. Agnelli” Lingotto di Torino, Concerti 2000-2001