Celibidache dirige i Filarmonici di Monaco nel loro centenario
Struggente interpretazione del maestro esaltata dall’ottima prova del coro
Un’ora e tre quarti di lucido delirio. Ma per quanto paradossale sembrasse nello stile, nella condotta delle parti e nella scelta dei tempi, l’esecuzione della Messa da Requiem di Verdi diretta da Sergiu Celibidache per il centenario dei Filarmonici di Monaco rimarrà un punto di non ritorno non solo nella storia personalissima di questo direttore ma anche nel ricordo di chi l’abbia ascoltata e vissuta, prima con incredulità, poi con sgomento. Che le avventure dell’interpretazione possano riservare momenti di tale altezza ed emozione è un fatto che consola e illumina, ripagando di molte quotidiane amarezze; anche se in verità tutto, in questa esecuzione, sembrava provenire da un lontano mondo di sogno, irreale e incommensurabile: come da un’età in cui la vera grandezza dell’interprete era il segno tangibile della vita dello spirito, e della capacità di immedesimarvisi con devozione e sacralità.
Solo Celibidache poteva osare e leggere questo monumento dell’arte verdiana come un terribile atto di impotenza, rivelandone non solo le intrinseche debolezze di fronte alla celebrazione del mistero della morte ma anche le fiammeggianti tensioni, le cadute abissali, e ancor piú le fratture stilistiche nella lotta per una trasfigurazione tanto evidente nelle intenzioni quanto problematica nella realizzazione finale. La dilatazione dei tempi, un tratto che consente a Celibidache di dare significato a ogni particolare minimo della partitura in una visione d’insieme che rimane sempre coesa e chiarificatrice, sortiva qui l’effetto di una inedita liberazione del respiro sinfonico, quasi alla ricerca di una dimensione originale, assoluta dell’espressione; ma come un respiro calmo e profondo possa essere anche affannoso e balbettante, Celibidache lo mostrava piegando la parola cantata a continue oscillazioni e sfumature d’accenti, per immetterla in un tessuto strumentale di stupefacente varietà di timbri. E fino a che punto la cultura del suono da lui trasmessa alla sua orchestra in anni di lavoro e di approfondimento sia cresciuta e si sia rafforzata, bastava a comunicarlo la tinta brunita degli archi, la lucentezza degli ottoni, la calibrata armonia dei legni, tutti singolarmente in rilievo e insieme al servizio dell’idea del direttore: un’esperienza d’àscolto che oggi non ha confronti. La stessa parziale inadeguatezza del quartetto vocale (Elena Filipova, Reinhild Runkel, Peter Dvorsky, Kurt Rydl), ancor piú sottolineata dalla prova invece straordinaria del Coro Filarmonico preparato da Michael Gläser, passava in secondo piano di fronte a una resa globale di cosí eccezionale valore. Mai avevamo sentito il Requiem di Verdi altrettanto struggente e vicino: occasione di riflessione sulla musica tutta, nel rito ineffabile dell’interprete ispirato.
da “”Il Giornale””