Reimann «canta» Kafka

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Prima assoluta a Berlino de «Il castello» tratta dall’omonimo dramma

Un’opera forte e incalzante che mai tradisce lo scrittore

BerlinoDas Schloss (Il castello), la nuova opera di Aribert Reimann da Kafka che ha inaugurato in prima mondiale la quarantaduesima edizione del festival di Berlino, getta un pallido raggio di sole sul paesaggio con rovine del teatro musicale contemporaneo e se non annuncia l’alba di una nuova giornata consente almeno di riflettere sullo stato di un genere a cui molti hanno pronosticato un’ineluttabile fine: la morte dell’opera lirica, se non proprio del teatro con intervento della musica. Posto che la differenza si trovi nella piú o meno stretta relazione fra dramma, canto e musica, ossia nel fatto che nell’opera in quanto tale un’azione viene sviluppata in funzione di personaggi che si esprimono cantando e di un’orchestra che li sostiene, il nocciolo della questione sta nel rendere non solo giustificati ma anche necessari questi elementi nell’arco di una vicenda rappresentata scenicamente: in modo tale da coinvolgere lo spettatore in una finzione tanto piú vera quanto piú è rispettosa delle convenzioni. L’equivoco sta nel ritenere invece che basti la presenza di questi elementi per avere un’opera.

Reimann, 56 anni, berlinese, una lunga carriera in Germania, è certamente un compositore che vive le obiettive complicazioni (vogliamo dire problematiche?) della musica d’oggi, nella babele linguistica che la contraddistingue. Ma possiede due doti che lo rendono un vero operista. La prima è una conoscenza profonda della voce intesa come mezzo espressivo, nelle sue sfaccettature piú diverse, conseguenza anche della sua mai dismessa attività come collaboratore pianistico di grandi cantanti. La seconda è una consapevolezza precisa delle regole specifiche del genere, sul piano sia drammaturgico sia musicale. Ed esemplare da questo púntò di vista é appunto la sua riduzione del testo kafkiano, basata sulla traccia della drammatizzazione di Max Brod. Si poteva temere che da una scelta così rischiosa e fors’anche un po’ scontata derivasse un polpettone indigesto infarcito di simboli naturalmente «emblematici», ossia; all’ascolto, orge di dissonanze, incubi ossessivi, confusione di stili. Niente di tutto questo. La storia dell’agrimensore K. alla ricerca di calore umano e di solidarietà nel castello dominato da leggi rigorose e incomprensibili si dipana con logica teatralmente incalzante, in una successione si scene caratterizzate formalmente in modo chiaro, costruttivo, nelle quali la musica si sforza di rappresentare i diversi stati d’animo e le situazioni con intuibile immediatezza, nello stile di un espressionismo ben temperato. Il protagonista (l’ottimo baritono Wolfgang Schòne) percorre tutti i registri consentiti alla sua voce per dare un senso al dramma, dalla passione al raccoglimento, dalla pietà alla disperazione. Che non è tuttavia mai negazione di valori e tanto meno «critica dell’opera».

La scelta di uno stile tragico, assorto e severo, è coerente con l’idea di fare di K. non solo il centro simbolico di un’azione sospesa tra sogno e realtà ma anche un eroe sulla scena, che alla fine muore come si conviene a un personaggio d’opera: trovando in ciò la sua trasfigurazione. Non si vuole affermare che Das Schloss sia una grande opera in assoluto (e neppure in relativo: rispetto al Lear, finora il capolavoro di Reimann, sono inferiori la qualità delle invenzioni strumentali e l’intensità del respiro lirico); indubbiamente si tratta però di cosa che non bara al gioco e non inganna con false promesse lo spettatore che si reca a teatro. Se sia utile oggi scrivere opere; se sia ancora «attuale», è questione di ben altra portata.

Un’ultima osservazione. Non è vero che con l’opera contemporanea, perfino in una prima assoluta verosimilmente realizzata con l’approvazione del compositore, il problema della regia non susssista. L’allestimento presentato alla Deutsche Oper, regia di Willi Decker e scene di Wolfgang Gusmann, era una proposta di interpretazione troppo geometrica e rozza, che non aderiva agli spessori ora densi e grumosi, ora sottili e levigati, della partitura. E mentre nella musica si voleva evitare il teorema e privilegiare l’emozione, la parte visiva schematizzava e semplificava le relazioni con sovrapposizioni concettuali, in modo didascalico. Dirigeva, con competenza, Michael Boder.

 

(«Il castello» di Aribert Reimann al Festival di Berlino, repliche fino al 27 settembre)

da “”Il Giornale””

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