Si chiama Bolzano Festival Bozen in ottemperanza al bilinguismo d’ordinanza, in realtà è una rassegna internazionale di dimensione europea che al tempo stesso coordina e potenzia le attività musicali di Bolzano durante l’estate. In un certo senso il festival nato quest’anno è il punto di arrivo (e lo sarà di partenza) di semi gettati nel corso degli anni passati, e che ora danno frutti copiosi: l’ospitalità stabile offerta alla European Union Youth Orchestra e alla Gustav Mahler Jugendorchester per le prove e i concerti, la nascita dell’Accademia Gustav Mahler per il perfezionamento di giovani musicisti (tutto nell’ottica privilegiata adottata da Bolzano, “”Musica e gioventù””), la rinnovata veste del concorso pianistico famosissimo intitolato a Ferruccio Busoni, che ora ha optato per una formula biennale e prevede per il primo anno, come questo, un’attenta ed esigente fase di preselezioni unita a un prestigioso festival pianistico internazionale: il tutto sotto la guida del tutto sprovincializzata di Peter Paul Kainrath e con il contributo dell’Orchestra Haydn, risorta con l’arrivo di Gustav Kuhn, e del locale Conservatorio di Musica. Insomma, non sarà Salisburgo o Lucerna, ma Bolzano ha saputo nell’arco di poco più di un mese riunire manifestazioni importanti e di qualità, ponendosi all’avanguardia nel panorama musicale frenante del nostro paese. Naturalmente non abbiamo potuto ascoltare tutto. Ma dell’esecuzione della Terza Sinfonia di Mahler con i ragazzi svezzati da Claudio Abbado e ora affidati alla bacchetta esperta di Ivan Fischer serbiamo un ricordo grato; dalla meritoria prima italiana dell’ultimo Concerto per pianoforte di Elliott Carter abbiamo ricevuto un arricchimento non soltanto culturale; dal recital di Lilya Zilberstein, ultima vera star uscita dal “”Busoni””, con un intelligente programma Clementi-Liszt-Rachmaninov, riflessioni ed emozioni. E poi che bello veder favoriti i giovani vincitori di concorso con occasioni di farsi apprezzare, e riconosciute finalmente nella sede adatta le doti del nostro Andrea Lucchesini, alle prese – altra felice costante del festival: la interdipendenza di passato e presente – con Chopin accostato a Berio.
Bayreuth
Avrete già letto sulla stampa nazionale e internazionale della “”Neuinszenierung”” di Christoph Schlingensief del Parsifal a Bayreuth, unica novità del festival wagneriano per antonomasia di quest’anno, e forse ascoltandolo per radio vi sarete fatti un’idea – benché la specialità del luogo sia proprio l’acustica incomparabile del Festspielhaus dal vivo – della direzione musicale di Pierre Boulez, tornato a quest’opera a quasi quarant’anni di distanza da una precedente, famosa edizione. Poche volte le reazioni e i giudizi sono stati così unanimi: bocciatura unanime per Schilingensief, apprezzamento altrettanto unanime per Boulez. Un nostro illustre studioso di civiltà antiche che si interessa propiziamente di musica, ascoltando appunto alla radio il racconto delle spericolate invenzioni del regista – si riferiva dell’ormai divenuta celebre decomposizione di un coniglio proiettata sulla scena mentre si svolge la redenzione finale di Parsifal – non ha esitato a definirne l’autore un “”imbecille””. Ora, tutto si può dire di Schlingensief fuorché che sia un imbecille. Da noi provinciali il suo nome e la sua opera sono del tutto ignoti, ma si tratta di una giovane personalità assai di punta in Germania, e non solo, in un certo senso predestinata all’incontro con il teatro, data la sua estrosità di artista visivo o meglio, come lui stesso si definisce, di performer. In principio dunque il suo arruolamento era un atto di coraggio, di quelli che tanto piacciono per contrasto al patriarca Wolfgang Wagner, già responsabile del Parsifal più banale e convenzionale che la storia di Bayreuth ricordi. Solo che dare il Parsifal in mano a Schlingensief è un po’ come affidare a Dario Argento un film su Padre Pio: difficile che se ne stia tranquillo al quia. Infatti, appena si apre il sipario, siamo proiettati in un mondo di visioni e di associazioni che nulla hanno a che fare con il testo (e, poi si capirà meglio, con la musica), sorta di mostruosa superfetazione tra l’horror e l’extracomunitario partorita dalla mente allucinata e allucinante del regista. E una volta partito per la tangente, Schlingensief non si discosta più dalla sua linea di orrida trasformazione. La segue anzi con coerenza, con sbalorditiva, efferata bravura, con determinazione ostinata, a suo modo tanto geniale quanto gratuita. Siamo alla schizofrenia più radicale: lucida e morbosa al tempo stesso. Con suggestione visiva sempre potente, Schlingensief mette in scena fantasmi e allucinazioni in una specie di isola remota dell’umanità, nella quale mondi di sopravvissuti alla catastrofe e di nuove presenze primitive si danno appuntamento per esorcizzare un rito. Il rito è, o dovrebbe essere, quello del Graal; ma siamo lontani anche dai Signori degli Anelli: piuttosto siamo di fronte a un assembramento di rovine che riassumono apocalitticamente intere storie di uomini e di civiltà. La variazione sul tema, condotta con simboli, richiami e proiezioni sovrapposte al lacerante conato di dare un senso ultimo alla vicenda, provoca fatica e nervosismo e configge apertamente con la musica. Lo iato tra visione e ascolto diviene così insostenibile: ed è proprio questo che il regista vuole. Solo che – ecco l’altro corno della schizofrenia – Boulez sceglie invece la strada del rigore, dell’analisi interna (e interiore), della lucidità e della massima trasparenza. E’ un Parsifal bellissimo (sì, bellissimo) il suo, nobile e virile, sentito e reso con amore ma senza retorica; e naturalmente affilatissimo (ma quanto più equilibrato di una volta) nel rendere percepibili la modernità e la visionarietà della partitura. Se in medio stat virtus, a metà strada fra i due estremi si collocava la compagnia di canto, nel complesso di livello buono (Robert Holl, Gurnemanz; John Wegner, Klingsor; Michelle De Young, Kundry) e medio (Endrick Wottrich, Parsifal; Alexander Marco-Buhrmester, Amfortas): tragicamente lontana però dalle altezze dei tempi che furono. Piccolo brivido, non esaltante: anche il coro del festival di Bayreuth, pensionato Norbert Balatsch, non è più quello di una volta.