Due incisioni discografiche della passata stagione stranamente scivolate via senza clamori, nonostante il lussuoso contorno, hanno consacrato Barbara Frittoli a cantante dell’anno: titolo confermato anche dalle convincenti interpretazioni dal vivo nelle Nozze di Figaro a Vienna in estate e nel recente Otello inaugurale della Scala (entrambe le produzioni dirette da Riccardo Muti, che sembra avere con lei un particolare e duraturo feeling). Piace dunque soffermarsi su questa giovane artista che rifugge – negli atteggiamenti e nella sostanza – da pose divistiche e che mostra sotto ogni riguardo di aver raggiunto una maturità tanto precoce quanto solida. Il più bel complimento che si possa fare alla Frittoli è quello di essere la Mirella Freni del nuovo millennio (ciò valga anche come omaggio indiretto alla nostra carissima, indimenticabile Mirella): a quel modello la avvicinano non soltanto il repertorio (e il modo in cui questo repertorio viene oculatamente amministrato) ma anche certe caratteristiche vocali, la purezza del timbro e una sana concretezza nel servirsi delle sue risorse per cogliere il cuore di un’interpretazione, senza enfasi e senza sovrastrutture.
Le due incisioni discografiche in questione vedono impegnata la Frittoli in un ruolo alla sua voce congenialissimo (la Mimì della Bohème) e in un uno a prima vista di carattere più rischioso, ma da lei risolto con intelligenza e soprattutto con splendida capacità di adeguamento alle proprie specifiche qualità vocali: ed è la Nedda dei Pagliacci. Si ribadisce essere la Frittoli un’interprete artisticamente sensibile e raffinata, ma soprattutto consapevole dei suoi mezzi: dove tale consapevolezza non sembra nascere da una sovrapposta volontà di ragionamento e di rifinitura, che spesso in tante sue colleghe produce insopportabile artificio, bensì da un istintivo, si direbbe quasi instillato, dominio del perché e del come. Da cui proviene l’impressione di un bersaglio esattamente individuato e raggiunto per via naturale. Ciò non toglie naturalmente che si possano amare o forse anche preferire altre Mimì e altre Nedde (nella storia, s’intende, giacché oggi i confronti sono meno temibili): ma quelle della Frittoli sono figure messe a punto e compiute, personaggi che le appartengono e si comunicano all’ascoltatore con pieno intendimento di senso.
Il contorno lussuoso cui si accennava riguarda sia gli illustri concertatori che l’accompagnano (ebbene sì, l’accompagnano: ché questo deve saper fare nell’opera un direttore, senza esserne diminuito), sia i famosi partner maschili che la circondano. Zubin Mehta è a capo della Israel Philharmonic Orchestra (ottima orchestra, anche se qui un po’ svagata) nella Bohème, e la dirige con quel sovrano distacco che gli è proprio, come guidasse con compiacimento da buon intenditore una Mercedes dotata di cambio automatico: lui accende e la macchina risponde. Assai più ricco di intenzioni e di ambizioni è invece Riccardo Chailly nei Pagliacci, dove si ammira senza riserve la sbalorditiva bravura della sua orchestra davvero regale del Concertgebouw. Ma la forse un tantino esagerata tendenza a voler imporre il proprio marchio di riconoscimento su una partitura peraltro ricolma di occasioni (sul versante della modernità, delle asprezze, dei contrasti, dei repentini cambi di umore) trova proprio nella Frittoli (grande aria di Nedda nella scena seconda del primo atto, duetto tra Silvio e Nedda, scena della recita) un’interlocutrice serenamente incline al temperamento e a un opportuno equilibrio stilistico, pur con qualche divergenza di vedute. Con Mehta, invece, la Frittoli è del tutto a proprio agio, in un’interpretazione a tutto tondo, tranquilla e scorrevole.
Ed eccoci ai colleghi. Che sono, si è detto, famosi, anzi famosissimi. José Cura nei Pagliacci, nientemeno che Andrea Bocelli nella Bohème (la quale, fra l’altro, risulta prodotta dalla sua casa discografica, la Sugar: con quali propositi?). Ebbene, basti dire che le loro presenze sembrano fatte apposta per mettere in risalto, per contrasto, le doti emblematiche della Frittoli. In senso più generale: di preparazione vocale, di coscienza, di modestia e di serietà. Di lei, e semmai dei giovani cantanti qui proposti, che le assomigliano per assenza di arrogante protagonismo e di pomposa autocelebrazione del vacuo: Carlos Alvarez e Simon Keenlyside in Leoncavallo, Eva Mei e Natale De Carolis (meno il legnoso Paolo Gavanelli) in Puccini. Ma siccome storcere il naso sul bellimbusto Cura e sul fenomeno Bocelli è insensato, qui ci limitiamo a chinare la testa e a dire: brava Barbara, avanti così.
Sergio Sablich
Puccini: La Bohème, Bocelli, Frittoli, Gavanelli, Mei, De Carolis, Luperi; Israel Philharmonic Orchestra, Coro del Maggio Musicale Fiorentino, Coro di voci bianche della Scuola di Musica di Fiesole, direttore Zubin Mehta; Insieme Srl. Sugar, 2 Cd 468 043-2.
Leoncavallo: Pagliacci, Cura, Frittoli, Alvarez, Castronovo, Keenlyside, Folea, Alders; Royal Concertgebouw Orchestra, Netherlands Radio Choir, direttore Riccardo Chailly; Decca, 1 Cd 467 086-2