Ravenna: Les Danaïdes

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Troppi tagli per amare Salieri

Il paragone non sembri troppo puerile. Il fatto è che il Festival di Ravenna, che ha una tradizione rispettabile e che non nasce, come qualcuno anche autorevole ha scritto, dal nulla, assomigliava quest’anno a una di quelle grandi squadre di calcio profondamente e forse un po’ avventatamente rinnovate le quali, nelle uscite precampionato, alternano figuracce micidiali a barlumi di gioco sublime che lasciano intravedere un futuro nuovo. Alla sfera del sublime apparteneva senz’altro il concerto mozartiano di Muti con la Filarmonica della Scala e il Coro della Radio Svedese; anche se la collocazione all’aperto, negli spazi della Rocca Brancaleone, molto dispiacque a chi non era intervenuto per ragioni squisitamente mondane. Per la verità non erano i più. Figuraccia micidiale, e molto triste, era invece il Fidelio in forma di concerto (produzione Scala) scempiato da Maazel con la soppressione dei dialoghi parlati, e tirato via nella musica con la frettolosità di chi abbia impegni urgenti altrove. Si poteva, si doveva evitare.

Molto si puntava, invece, e giustamente, sulla prima ripresa moderna in forma scenica, al Teatro Alighieri, di un’opera affatto capolavoro di Antonio Salieri, LesDanaïdes (nata a Parigi nel 1784). Un capolavoro di Salieri può comunque non essere il massimo non solo per chi ricordi la storia, vera o presunta, di questo compositore nella Parigi e soprattutto nella Vienna del tardo Settecento e del primo Ottocento (egli morì nel 1825, due anni prima di Beethoven, che fu suo allievo), ma anche per chi abbia ben presenti le opere di musicisti coevi e di lui più grandi, da Gluck a Mozart, da Cherubini allo stesso Beethoven. Eppure è cosa notevolissima, degna del massimo rispetto. Anche sul piano della cultura musicale, per capire il passaggio dall’augusto genere della tragédie-lyrique, già rinnovato da Gluck, all’opera seria

Matura di tradizione italiana, alla geniale fusione dei generi che, con Mozart, avrebbe chiuso l’epoca splendida del teatro musicale del Settecento. E soprattutto per comprendere che cosa fossero lo stile elevato, il mito rivissuto con autentico fuoco drammatico, il clima poetico e musicale, di classico decoro, della tragedia antica, il miracoloso equilibrio di convenzione e invenzione, di retorica e commozione. In una parola, l’aurea finzione del teatro che è mestiere e anima insieme.

Ma se qualcuno saltasse su e ribattesse che di tutto questo, a Ravenna, non si era accorto assistendo all’opera, e che anzi l’impressione che ne aveva avuto era quella di un susseguirsi confuso e genericamente concitato di momenti drammaturgicamente quasi incomprensibili, anche se – via – davvero impressionanti, ebbene, non potrei mica dargli torto. Tutt’al più si intuivano, dunque, l’originalità e la grandezza, ma non si poteva coglierle realizzate compiutamente sulla scena. E non perché la regia di Pier Luigi Pizzi fosse d’ostacolo (anzi!), o perché Gianluigi Gelmetti non creasse il clima giusto e non definisse un’emozione nell’impatto immediato con la musica, o ancora perché sul palcoscenico agissero cantanti inadeguati (la Dessi, la giovane Pedaci e l’ardimentoso gruppo degli uomini erano di primissima classe, straordinari per impegno e proprietà stilistica). Non si trattava di questo. E allora? La ragione era molto più semplice e irritante; al punto che prima o poi questo problema lo dovremo affrontare sul serio, a fondo e impegnandoci anche noi ad ogni costo. Per capire certe ragioni, se ci sono, e chiedere chiarezza.

Ciò che ascoltammo a Ravenna fu soltanto il torso delle Danaidi di Salieri, ciò ch’era rimasto dopo le potature e i tagli che ne avevano pesantemente manomesso l’integrità e l’equilibrio. Il povero corpo straziato resistette valorosamente, e prima di spirare raccolse le ultime forze, già disperse nel calore delle arie, nel plasticismo dei recitativi, nel vigore dei pezzi d’insieme, per mormorare un lamento, forse – ci parve – una domanda: a chi giova tutto questo?

Musica Viva, n. 10 – anno XIV

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