Bologna applaude l’allestimento rossiniano con Daniele Gatti sul podio
Bologna – Sono trascorsi diciassette anni da quando Paolo Isotta, in un saggio sul Mosè rimasto insuperato, consolidò, dopo che altri ne avevano posto le basi, l’edificio critico dell’opera seria di Rossini. Da allora molti passi in avanti si sono compiuti anche sul piano esecutivo, con il contributo determinante del Festival di Pesaro, per rendere giustizia ad una produzione che, accanto a quella comica, rappresenta una catena di vette isolate nella storia del melodramma dell’Ottocento. Di quei passi, molti si sono mossi nella direzione del recupero della vocalità rossiniana, con risultati spesso assai probanti in fatto di tecnica e di stile. Meno continua tuttavia è stata l’attenzione per un aspetto che sempre più a noi oggi sembra essenziale: la funzione dell’orchestra e del tessuto strumentale nella ricreazione di un linguaggio che, pur privilegiando le voci, si realizza in modo completo attraverso un respiro sinfonico – sintesi di stili e di generi – che nessuno se non Mozart aveva saputo equilibrare con altrettanta varietà di accenti.
Nel caso del Mosè, s’impone anzitutto la scelta del testo: quello napoletano del 1818-1819 o il rifacimento francese del 1827. Oggi che queste versioni con le loro varianti sono sufficientemente acquisite anche all’ascolto, noi sappiamo che si tratta di opere considerevolmente diverse, da preferire comunque alla traduzione italiana della versione francese che, con un certo pragmatismo, la tradizione finì per considerare almeno da noi definitiva: una sorta di fusione di modi italiani e francesi con le dovute correzioni d’uso, ossia con tagli e con la soppressione dei ballabili. Ed è appunto questa l’edizione che il Comunale di Bologna ha scelto per lo spettacolo centrale della sua stagione. A giudicare dalla risposta straordinariamente calorosa del pubblico, l’opera ha ormai conquistato il rango che le compete. Ma è un Mosè che in questa veste ha confermato cose che si sapevano già senza aggiungere quel di più che era possibile, in queste condizioni, ribadire proficuamente anche nella normalità di una stagione di alto livello.
Alcune di queste conferme sono importanti. Per esempio che esiste un ricambio qualitativamente alto di voci giovani e agguerrite per affrontare tale repertorio. Michele Pertusi, Francesco Piccoli, Giovanni Furlanetto e il tenore Ramon Vargas, adattissimo per timbro e agilità alla parte indocile di Amenofi, erano preparati e puntuali come meglio non si poteva; e splendidamente andavano le cose con le interpreti femminili, Anna Caterina Antonacci (Anaide svettante), Gloria Scalchi e Gloria Banditelli, che ne dimostravano di avere assimilato e di poter rendere con assoluta consapevolezza una lezione di autentica civiltà belcantistica. Completavano degnamente il cast Ezio Di Cesare e Ruggero Raimondi: il quale, Mosè di ceppo antico, dopo un iniziale distacco ritrovava lo smalto e l’autorevolezza di una personalità vocale e scenica imponente.
Daniele Gatti è un direttore ormai lanciato, e alla grande. Se questa doveva essere la conferma delle sue doti professionali – sicuro dominio sull’orchestra, duttilità nell’accompagnare i cantanti, cura dei particolari, la conferma c’è stata. Ma Gatti non ha ancora raggiunto, ci pare, una chiarezza di idee e una padronanza di stile tali da imprimere uno slancio unitario a ciò che la partitura esige sia interpretato: quella trama strumentale che parte dall’orchestra per distendere in ampie arcate e fissare in frasi scolpite, ma anche timbricamente rilevate, le linee del pensiero musicale.
La co-produzione con il Covent Garden ha consentito di investire nell’allestimento risorse forse altrimenti impensabili (ottima è stata la realizzazione dello spettacolo; così come la prova del coro impegnatissimo, istruito da Piero Monti). Hugo de Ana sembra essere uno scenografo di bel gusto figurativo più che un regista incisivo; anche se alcuni momenti topici come il passaggio del Mar Rosso li risolveva in modo egregio, erano soprattutto le sue scene evocative, di grande impatto visivo nella ricostruzione mitica del paesaggio egiziano, a fare la forza dello spettacolo. Ecco, se un appunto si vuol fare ai nostri bravi cantanti, è quello di non saper recitare (salvo Raimondi) così bene come cantano. Ma questo è un male che ha radici antiche, registi a parte.
«Mosè» di Rossini al Teatro Comunale di Bologna (repliche il 26, 28 marzo e i1 5, 7, 10 e 12 aprile)
da “”Il Giornale””