La nuova iniziativa del Premio Calvino 1990 ripropone il rapporto da sempre conflittuale e comunque dialettico tra librettista e compositore
“”Tante volte mi sono sentito domandare perché scriva da me i miei libretti. La risposta è stata sempre la stessa: perché la collaborazione di un poeta sarebbe i d’impaccio al mio lavoro di compositore. (…) Scrivendo da me il libretto posso rielaborarlo con la massima libertà; posso organizzare il giuoco delle domande e delle risposte in funzione puramente musicale-costruttiva; posso infine decidere dove sfruttare quel potere di ‘concentrazione’ così caratteristico della musica nell’Opera, di cui parlò una volta, e con tanta lucidità, Ferruccio Busoni. Il che significa vedere dove la musica ci consente di ridurre le parole a un minimo”” . Queste affermazioni del compositore Luigi Dallapiccola sono relative alla nascita del libretto dell’ Ulisse, la sua ultima opera per il teatro (1968), ma possono valere in generale per introdurre il problema dei rapporti fra libretto e musica nell’opera. Problema, come si sa, tanto antico quanto l’opera stessa, a cui non è possibile dare una soluzione né univoca né definitiva, come riconosceva anche un altro grande compositore di teatro del nostro secolo, Richard Strauss, quando osservava: “”La contesa tra parole e musica è stata fin dall’inizio il problema della mia vita: la mia ultima opera, Capriccio, la conclude con un punto interrogativo””.
Abbiamo citato Luigi Dallapiccola e Richard Strauss perché ci occuperemo di questa questione non in generale, ma dal punto di vista dei rapporti fra libretto e musica nell’opera contemporanea, soprattutto italiana. Dallapiccola e Strauss, che furono entrambi anche librettisti delle loro opere – anche se Strauss lo fu solo in gioventù e dopo la perdita di Hofmannsthal, e per brevissimo tempo – sono termini di riferimento in un certo senso obbligati, giacché rappresentano per così dire l’ultimo anello di congiunzione tra l’opera del passato e quella moderna. Al cui centro si colloca la figura di Richard Wagner, che per primo innalzò il compositore-musicista al rango di poeta, in una visione del teatro come opera d’arte totale, la cui responsabilità era riunita nella mente di un creatore unico e assoluto. Quel modello fu decisivo per le sorti dell’opera: sia per chi lo accettasse e a esso si ispirasse (e Strauss fu senza dubbio fra questi), sia per chi invece lo rifiutasse o cercasse di interpretarlo in modo più personale (per esempio Berg nelle opere Wozzeck e Lulu). La storia dell’opera del Novecento è in gran parte segnata dalla ricerca di una nuova dimensione poetico-musicale, linguistica e drammaturgica, ora volta al recupero di forme chiuse e di architetture stilizzate, ora tendente a sviluppare certe implicazioni del principio di continuità proprio del dramma musicale.
Se per un Dallapiccola e uno Strauss, un Berg e uno Stravinsky, via via risalendo ai compositori del Novecento storico, il problema dei rapporti tra parole e musica rimaneva comunque inserito nell’arco dell’evoluzione del teatro musicale, evoluzione che si trattava semmai di piegare a nuove esigenzé di espressione e di comunicazione, dopo la rottura di questa continuità avvenuta negli anni Cinquanta, con le avanguardie della “”nuova musica””, la questione si è venuta ponendo in termini assai diversi. Ciò che i compositori delle nuove generazioni, a cominciare da quella di mezzo rappresentata da Boulez, Stockhausen, Nono e Berio, hanno richiesto al teatro, non aveva più molto a che fare con ciò che l’opera era stata in passato: un mezzo per esprimere sulla scena, attraverso il canto, le passioni umane. E occorre sottolineare la parola canto, nell’accezione di espressione lirica e di uso della voce come strumento di comunicazione delle emozioni destate o motivate da un’azione rappresentata sulla scena, per stabilire un raffronto fra ciò che dell’opera lirica è causa finale ab aeterno e quello che il teatro musicale moderno invece persegue di diverso, anche in relazione al testo.
E naturalmente vero che figure come Busoni o Weill nella sua collaborazione con Brecht avevano già avanzato e concretamente realizzato nuove proposte per una utilizzazione radicalmente diversa delle formule dell’opera. Ma la loro critica si basava appunto sul rifiuto dell’opera tradizionale, e in un certo senso acquistava valore proprio perché il pubblico aveva presente quel genere d’opera che ora veniva criticata. Non a caso le intenzioni erano esplicitamente dichiarate ed entravano a far parte del piano compositivo, e ciò che si negava era in funzione di ciò e di sensibilità, ma anche una chiara definizione del proprio mondo poetico e compositivo, o addirittura spirituale, tale da non poter essere per così dire traducibile da altri (Wagner per l’appunto la pensava così). Non è un caso che ciò accada per esempio con autori come Stockhausen o Bussotti, forse megalomani la loro parte, ma indubbiamente depositari di idee e stili che li contraddistinguono in modo fortemente individuale. Che lo si accetti o meno, questo mondo non ammette mediatori: e quanto ai contenuti, esso parla di sé, non racconta storie. Perciò lavori di immensa ambizione come il ciclopico Licht di Stockhausen o L ‘ispirazione e Bussottioperaballet di Bussotti appaiono in sé compiuti anche dal lato poetico e drammaturgico, in quanto danno un’idea completa del teatro così come lo intendono i loro autori. Seduzioni culturali e passioni poetiche d’ogni provenienza, archetipi letterari e privatissime autocitazioni, ardite sperimentazioni sonore e preziosi simbolismi grafici, deliri decadenti e folgoranti abbandoni all’espressione più elementare e immediata si intrecciano in un grande “”teatro totale”” allegorico, di cui responsabile unico è l’autore, insieme musicista, poeta, regista, coreografo, scenografo, costumista e interprete.
L’altra tendenza è però ancora più interessante, e se si vuole offre una risposta più attuale al problema dell’opera oggi. L’incontriamo nella collaborazione di letterati e musicisti per un progetto comune di teatro nel quale siano rimessi in discussione i fondamenti stessi del rapporto fra lingua, azione e musica. Le competenze specifiche e le ansie collettive si tendono la mano e si sostengono nello stringersi sempre più necessario di queste esperienze e collaborazioni fra musicisti e letterati. Pensiamo per esempio all’ultimo Nono, e soprattutto a Berio. Quest’ultimo, lavorando a stretto contatto con uomini di cultura e artisti come Eco, Sanguineti e Calvino, ha potuto sperimentare e realizzare un modello di teatro nuovo non solo per i contenuti (che significativamente coinvolgono proprio la problematica dell’opera, dell’ascolto e della comunicazione) ma anche nella forma, utilizzando i mezzi del teatro per ripensare in una luce moderna le possibilità stesse, espressive e costruttive, dell’opera in musica. Soprattutto la collaborazione estremamente avanzata di Berio con Calvino (La vera storia, 1982; Un re in ascolto, 1984) mira a indagare i rapporti tra creazione e percezione, per dimostrare la possibilità di una molteplice lettura – e dunque di significati molteplici – dei segni prima enunciati e poi sottoposti a riflessione. Quella di Nono con Massimo Cacciari, invece, è tutta tesa a recuperare,il mistero dell’atto compositivo originario, del suono che si individua uscendo dal magma della babele linguistica: ma anche il sottotitolo della loro ultima e riassuntiva opera Prometeo, “”tragedia dell’ascolto””, sembra riaffermare il valore primario di una tematica alla quale è legata la ricerca di identità di gran parte del teatro musicale contemporaneo. E in questo processo di riappropriazione delle coordinate fondamentali del linguaggio teatrale e musicale, il librettista influenza il musicista e viceversa: nel senso che ognuno, partendo dal proprio punto di vista, viene costretto a confrontarsi con la visione dell’altro, a pensare nella prospettiva dell’altro e a modificare continuamente le proprie certezze; senza rinunciare mai a tradurre questa visione in concreti atti creativi. È ciò che un tempo si chiamava la poetica dell””`opera aperta””, ma che in fondo poeti e musicisti hanno sempre fatto nei casi in cui hanno lavorato di comune accordo: con la differenza che oggi questo lavoro non riposa più sulla base di una tradizione consolidata, ma presuppone la ricerca di una soluzione ogni volta nuova. In altri termini, l’ “”opera”” non è più un genere, ma un opus che ogni volta stabilisce i propri criteri. E spesso non basta che vi vengano utilizzati gli stessi mezzi – attori, cantanti, cori, orchestra, scene, costumi e via dicendo – che si voleva affermare. In altri termini, il problema si spostava dall’essenza dell’opera all’uso sociale e alla trasformazione delle sue strutture.
Fu un momento decisivo nella storia dell’opera. Anche perché, distruggendo a poco a poco il naturale legame con le diverse tradizioni che continuavano a vivere nel repertorio, questa tendenza produceva una frattura tra gli elementi che la costituivano: poesia, azione e musica. Sempre più spesso la musica, anziché esprimere il testo, mirava a portare al-l’immaginazione dello spettatore ciò che il testo – parola o azione – non poteva dire. Il connubio tra questi elementi si scioglieva in un nuovo progetto di interpretazione del ruolo e della funzione del teatro in musica, che non era più “”opera””. E la prima fra le molteplici conseguenze fu un ripensamento globale della funzione del testo nei confronti della musica e dell’azione. Ciò che era ancora primario per Dallapiccola – “”organizzare il giuoco delle domande e delle risposte in funzione puramente musicale-costruttiva”” – o per Strauss – la “”comprensibilità delle parole e del dialogo”” – divenne, se non inessenziale, secondario. A teatro non era più importante capire le parole, seguire un’azione che si evolva da situazioni drammatiche logicamente concatenate e considerare la musica una funzione del dramma. Gli scopi erano ora altri.
Da un punto di vista tecnico-compositivo, questa tendenza si manifesta in alcune scelte di fondo che, se anche non esauriscono l’ampio spettro delle possibilità, pure si sono affermate in modo deciso, talvolta radicale. Proviamo a enumerarle.
1. Il trattamento della voce. Abbandono non solo di una intonazione naturale, ma anche dei diversi tipi di enunciazione della parola nel canto: dal recitativo all’aria, dal “”parlando”” al declamato al canto spiegato attraverso tutti i gradi intermedi. La voce diviene uno strumento accanto ad altri strumenti, utilizzabile nei registri più disparati, soprattutto nel registro acuto e sovracuto là dove può essere sfruttata per produrre suoni puri, decontestualizzati e deverbalizzati. Cadono così le consuete suddivisioni tradizionali dei registri, soprano, contralto e via dicendo, e la tipizzazione caratteristica di certi ruoli: la voce diviene un’astrazione, un assoluto che riemerge trasfigurato dopo una tabula rasa.
2. Il trattamento dell’orchestra. Conseguentemente, l’orchestra diviene protagonista del dramma, e dell””`opera”” in quanto tale. Non in senso wagneriano, come conduttrice dell’azione, ma anzi come mezzo di continua trasformazione e perfino di negazione di un dramma unitariamente inteso. Tende non solo a sovrapporsi e a “”coprire”” le voci, annullandone così la funzione semantica, ma a svilupparsi o a sospendersi per seguire una propria storia, spesso in contrasto con ciò che avviene sulla scena. La divaricazione fra canto e orchestra è, per quanto possano valere simili generalizzazioni, il dato più caratteristico del teatro musicale contemporaneo.
3. Il trattamento del dramma. Anche qui si assiste a una profonda trasformazione dei valori tradizionali dell’opera. Il dramma in sé – cioè lo sviluppo di un’azione, in cui accadono fatti rispecchiati dalla musica – può essere a seconda dei casi più o meno accentuato e sottolineato, ma non è mai un racconto, una storia lineare, qualcosa che si svolge in modo coerente e logico nella successione in cui lo presenta la scena. E molto di più: una ricerca simbolica, universale e totalizzante di significati che vanno oltre la storia rappresentata. Certo, anche Don Giovanni o Parsifal presentano questi significati; ma all’interno di un racconto che ha una concretezza e una logica drammatica esattamente afferrabile nella sua dinamica teatrale. Nel teatro contemporaneo la storia in quanto tale sembra perdere importanza, per essere sostituita da altri valori: denuncia, protesta, ironia, parodia, introspezione, insomma riflessione di secondo, terzo e anche quarto grado. Ne abbiamo un esempio di altissimo rilievo nel lavoro di Berio che si intitola, emblematicamente, Opera (1970-77): un vero trattato di scomposizione e ricomposizione dei materiali costruttivi ed espressivi tipici del genere. Non occore aggiungere che questa è una caratteristica generale di tutta l’arte contemporanea. Ma nel caso dell””`opera”” porta a due conseguenze, entrambe presenti ai nostri occhi: da un lato la supremazia dell’elemento specificamente drammatico su quello musicale (in altri termini la musica diviene mero sfondo e accompagnamento di una vicenda drammatica estremamente complessa e articolata, già in sé compiuta); dall’altro, invece, la musica si sovrappone all’azione, e allenta il collegamento con ciò che accade sulla scena (e qui allora il contenuto della musica, sviluppato e integrato con i propri mezzi, è semplicemente calato in un contenitore drammatico neutrale e poco differenziato). In moltissimi casi, ciò che manca è la sintesi.
La sempre maggiore identificazione del fatto musicale con la ricerca linguistica, il razionalismo ascetico e l’astinenza espressiva da un lato, l’apertura all’impegno extramusicale, anche politico, e al mercato dall’altro, insieme con le sofisticate strutture compositive offerte dalla tecnologia e amplificate, sovente imposte, dai mezzi di comunicazione di massa, apportano continui mutamenti, che tendono ad ampliare e a rilanciare le nozioni consuete di teatro. Al fondo, si punta semmai a riproporre l’idea di un progetto totalizzante che accomuni musica e letteratura, spettacolo e immagine, gesto e pensiero. Ma rinasce anche, quasi per estremo contrasto, una predilezione per la nuda essenzialità della voce umana, che determina le scelte stilistiche e le stratifica sulla base degli stimoli dati dalla personale frequentazione letteraria del musicista.
Tra le tendenze che si riscontrano in questo campo, due sono specialmente da segnalare. La prima continua la tradizione del musicista che si scrive da sé i libretti. Ciò comporta, come è chiaro, una enorme responsabilità e consapevolezza di fronte a ciò che si intraprende: compositori che siano anche poeti e drammaturghi, soprattutto in un panorama così frastagliato e problematico come quello del teatro contemporaneo, sono più un’eccezione che la regola (ma in fondo è sempre stato così). Non occorre solo una forte dose di responsabilità, di sapere per circoscrivere un raggio di azione comune. Si vuole insomma dire che per esempio Verdi, Wagner, Mussorgsky e Massenet scrivono per il teatro in termini profondamente diversi fra loro, ma appartengono tutti a uno stesso genere che noi definiamo “”opera”” . Ed è questo che oggi non accade più.
Un aspetto che richiede particolare attenzione è quello relativo alla scelta dei soggetti. Per lungo tempo l’opera ha attinto a soggetti provenienti dal mito, dalla Bibbia, dalla storia, dalla letteratura, dalla vita reale o dalla immaginazione fiabesca; da aristocratica è diventata borghese, popolare, di massa, poi di nuovo di élite. Universale o nazionale che fosse, si rivolgeva a un pubblico chiaramente individuato, a cui poteva essere più o meno gradita, ma rimanendo comunque comprensibile. Parlava una lingua comune, ed era un mezzo di comunicazione le cui regole e convenzioni trovavano riscontro nel lessico familiare dei frequentatori del teatro. Chi amava il Trovatore o La Bohème poteva essere infastidito o urtato dal Wozzeck o dalla Carriera di un libertino, ma non poteva negare che si trattava di manifestazioni, estreme e negative fin che si vuole, della stessa idea fondamentale di teatro. Gli ingredienti erano fondamentalmente gli stessi, solo diversamente combinati e conditi.
L’opera contemporanea, lo si è già detto di sfuggita, tende a mettere in scena non storie e vicende, ma problemi, situazioni, stati d’animo, aspirazioni, idee, ansie, riflessioni. E si rispecchia nell’opera dei poeti, travasandone i testi, talvolta frammentati e ricuciti, in una sorta di aura musicale pregna di suggestioni e di richiami: così funzionano benissimo i versi disperati di Pier Paolo Pasolini nel Trionfo della notte di Adriano Guarnieri e quelli, delicati e sottilmente nostalgici, di Tonino Guerra – sceneggiatore impareggiabile non meno che poeta finissimo – nel Viaggio di Fabio Vacchi. Quando non è astratta, l’opera diviene simbolica: e vuol portarci a pensare e sentire cose che stanno al di là della loro rappresentazione. Ciò non toglie che si rivolga spesso anche a soggetti tratti da opere del passato, soprattutto letterarie, trovandone un riscontro nell’attualità. Più spesso ancora, come si è detto, cerca di individuare un collegamento con il clima e le strutture del teatro moderno, adottandone e rielaborandone i testi. Ma difficilmente un Beckett, uno Ionesco, un Bernhard si lasciano rivestire di musica. Più facile è la traduzione in libretti di romanzi contemporanei, specie se contengono temi esistenziali e situazoni in qualche misura rappresentativi della condizione odierna; ancor più quando appartengano a letterature moderne, di recente tradizione: l’ultima opera di Henze Das vergatene Meer (Lo sdegno del mare), in scena alla Scala, si rifà a un romanzo del giapponese Mishima, Blimunda di Azio Corghi è tratta da un romanzo del portoghese José Saramago. Ma se ripercorriamo alcune delle ultime opere contemporanee di autori italiani rappesentate nei nostri teatri troviamo Shakespeare (Riccardo III di Flavio Testi), Rabelais (Gargantua dello stesso Corghi), e perfino Verga (La Lupa di Tutino). Ossia soggetti non contemporanei. In questi casi, il lavoro del librettista non mira soltanto a operare una riduzione su testi e soggetti preesistenti ma anche a stabilire un nuovo percorso drammaturgico che la musica deve in qualche modo, con il suo intervento, qualificare. Tutto un filone dell’opera contemporanea, rappresentato in Italia da compositori come Lorenzo Ferrero e Marco Tutino, si propone di rendere attuale un tipo di opera che ha le sue radici nel melodramma, nella commedia per musica e perfino nell’opera buffa. Di esso recupera le forme chiuse, i diversi stili di canto e perfino certe convenzioni del processo drammatico-musicale tradizionale. Il librettista – Giuseppe Di Leva ne è un esempio ricorrente – sembra tornare al suo ruolo di tessitore di testi in funzione della musica, nel senso antico di colui che offre alla musica i tempi e gli spazi per espandersi liberamente secondo i suoi propri mezzi. Si tratta di tentativi che possono avere successo quando la qualità dell’invenzione e l’abilità di stabilire tutto un tessuto di riferimenti più o meno sottintesi si mantengono, sia nel libretto che nella musica, sul piano più alto del gioco intellettuale o viceversa dell’immediatezza espressiva. Non è facile che ciò avvenga, soprattutto a causa di una lingua poetica e musicale che ha perso le sue radici in un terreno ormai completamente trasformato dall’esperienza artistica e linguistica contemporanea; e non sempre il risultato è efficace anche sul piano della comunicazione, che è il fine a cui in primo luogo scelte di questo genere aspirano. Parole troppo semplici per una musica complessa, o troppo poco funzionali nel contesto di una definizione drammatica sfuggente.
Il problema fondamentale dell’opera contemporanea sembra dunque essere di natura storica prima ancora che artistica. La perdita di un linguaggio comune spinge gli autori a ricercare mezzi di espressione che da un lato si richiamano alla storia dell’opera e di essa costituiscono un’appendice più o meno carica di ambizioni moderne, dall’altro guardano alla creazione di un tipo di teatro per musica (o semplicemente con musica) nel quale tutti gli elementi siano ripensati in una prospettiva nuova. Il librettista in questo caso non è più principalmente un poeta, ma un drammaturgo che offre al musicista testi da elaborare, disarticolare e rifondere con un linguaggio musicale non più centrato sulla funzione espressiva del canto. E venendo a mancare la funzione centrale del canto, la parola perde i suoi significati semantici e acquista una valenza di altro genere. Tutto ciò contraddistingue il teatro contemporaneo, ed è specchio della nostra epoca, che in esso continua a vivere e a trasformarsi, alla ricerca di una identità non più definita, né universalmente definibile.
Musica Viva n.4 – anno XV