Questa è musica per le mie orecchie

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Grandi interpreti in una serie di aristocratici profili firmata da Paolo Isotta

«Sono un mostro; se fossi quello di Firenze mi sarei attirato minor ostilità». A parlare così di sé, con evidente esagerazione retorica ma non senza un fondo di sincera introspezione, è Paolo Isotta nel suo ultimo libro, una raccolta di scritti legati all’attualità della nostra vita musicale in rapporto alla figura, sempre più elevata a ranghi protagonistici, dell’interprete: sia esso cantante, strumentista o, al vertice della scala dei valori carismatici, direttore d’orchestra.

Protagonisti della musica son divenuti costoro per oggettiva carenza, nella nostra epoca, di veri creatori (a non più di tre Isotta è disposto a concedere un accredito almeno teorico: Messiaen, Penderecki, Stockhausen; chiudendo di fatto con Orff l’elenco dei rappresentanti autentici); conseguenza, come con aspra requisitoria si vorrebbe dimostrare, del venir meno delle premesse stesse di un’arte capace, al pari di quella del passato, di esprimersi e comunicare con chiarezza e profondità di linguaggio e di contenuti.

E davvero non manca, Isotta, di scagliare i suoi strali, ora pungenti, ora ironici, ora addirittura elegiaci, contro ciò che gli appare, in alcune manifestazioni esemplari, l’orrido campo di sconce e sterili battaglie: un «mundus deceptus», memorabilmente descritto nella «fantasiuccia callottiana» sulla moda delle esecuzioni filologiche e degli strumenti originali, e di qui amplificato, con modulazioni ai toni più lontani, nei saggi che portano in primo piano altri protagonisti, descritti a tinte fosche o crude, dell’odierno mondo musicale. Le istituzioni (Bayreuth in testa). I registi. Il pubblico. E su tutti la critica, una corporazione alla quale Isotta pure nominalmente appartiene, sia anche con il feroce puntiglio di un isolato. Un mostro, appunto.

Mettere l’accento fin dall’inizio sugli aspetti «sgradevoli» e sui sapori acri di questo volume (riconoscendo però anche in loro l’acume di una grande intelligenza, forse più in lotta con se stessa che con il mondo circostante), significa sgombrare il campo da ciò che vi è in esso di troppo dimostrativo e intenzionale, per lasciare spazio alle figure che lo colmano, in un paesaggio non solo rigoglioso e illuminato, ma anche vibrante di suoni armonici. Anzitutto perché la prosa di Isotta, con la sua inimitabile e invidiabile ricchezza di immagini (non è certo un caso che a Bruno Barilli egli dedichi attenzioni particolari), è in grado di rendere vivi e presenti i ritratti degli interpreti, svelandone istantaneamente, oltre i tratti esterni, le qualità sostanziali e caratteristiche. La loro scelta non obbedisce a criteri preconcetti, magari escludentisi a vicenda, ma è semmai una sfida a confrontarsi con la varietà inesauribile delle interpretazioni, ad analizzarne i meccanismi e le proprietà, a riconoscerne gli effetti o le tendenze in personaggi che, nella loro diversità (a volte apparentemente inconciliabile), contribuiscono a svelare le infinite possibili ricreazioni della musica e a penetrare nel mistero stesso della rivelazione della sua essenza. Un compito alto, a cui Isotta si accosta non solo con passione, ma anche con riverenza.

Ed è qui che la sua capacità di analisi, e poi di sintesi (requisiti ch’egli richiede ad ogni vero, completo interprete), emerge quasi per mimesi, adattandosi via via all’oggetto della riflessione. Certo, Isotta non si astiene dal celebrare alcuni suoi idoli con una partecipazione che non cela l’ammirazione (Furtwängler, De Sabata; Celibidache, Benedetti Michelangeli e Marinuzzi), ma è altrettanto appropriato quando, con più distacco, s’impegna a spiegare ciò che contraddistingue individualmente, e quindi differenzia fra loro, l’apollineo Sawallisch e il dionisiaco Kleiber, il nevrotico Gould e il compassato Kempff, il venerabile vecchio Böhm e il sempre giovanile Bernstein, per citare solo alcuni dei nomi che compongono la galleria dei diciotto quadri di Isotta. Nella quale, accanto a un capolavoro (il ritratto di Karajan), è possibile trovare anche qualche inattesa sorpresa: la grazia e la leggerezza del dipinto di Teresa Berganza, la luce mediterranea, solare, sul profilo di Beniamino Gigli.

Pare quasi che Isotta voglia conformare il suo stile all’indole degli interpreti, per coglierne così non solo l’intimo, la matrice espressiva, ma anche l’atteggiamento, la forma esterna del comportamento. Ed è perciò che si è parlato di mimesi. Entrando nei suoi interpreti, anche quando non li ama, Isotta respira con loro, ne fissa i gesti, misura le attitudini, giudica i risultati, individua un particolare rivelatore, ricostruisce il lungo arco di una veduta d’assieme: e così ci aiuta a sbrogliare la fitta trama di verità e di mascheramenti che sovente, in molti, si sovrappone, in modo anche assai complesso, alla nuda immagine.

Finita la sua carrellata, Isotta sembra voler spegnere le luci in sala e, prima di congedarsi, trarre la morale. La grandezza degli interpreti è una consolazione che acuisce la miseria del mondo che ci circonda, e di cui essi stessi sono al tempo stesso il prodotto, dato in pasto a consumatori avidi. Ma qui Isotta esagera nel suo apocalittico livore; ed è come se, dopo essere stato mosso dagli ideali di Faust, tornasse a vestire i panni di Mefistofele, magari nella trasformazione più diabolica del cane nero, pronto ad addentare ogni essere umano che gli si presenti a tiro. Spesso, s’intende, anche con ragione.

Paolo Isotta, Protagonisti della musica, Longanesi, pp. 225, lire 30.000.

da “”Il Giornale””

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