Fin dal suo apparire, il saggio di Wagner Uber das Dirigieren (Del dirigere, ora riproposto in una nuova traduzione curata da Francesco Gallia) ebbe un successo strepitoso – Hans von Bülow parlò di «oro puro, meraviglioso», Nietzsche di «scrigno prezioso» – e divenne un classico. Lo è anche oggi. Wagner lo scrisse nel 1869, quando aveva già diradato la sua attività di direttore, che era stata uno dei suoi impegni primari di musicista, per dedicarsi al completamento delle sue opere più grandiose (il ’69 è anche l’anno in cui riprese la composizione della Tetralogia dopo un’interruzione di dodici anni: nel frattempo erano nati Tristano e I maestri cantori). Ma di pensare e di occuparsi dell’arte direttoriale, in senso critico-estetico oltre che tecnico, non aveva mai smesso: soprattutto in rapporto a certi autori che gli stavano particolarmente a cuore, come Beethoven, Mozart e Weber, quelli dei quali si sentiva il discendente e l’erede legittimo.
Naturalmente ciò andava anche nei suoi interessi. La complessità e la difficoltà delle sue nuove partiture richiedevano una figura moderna di direttore d’orchestra che a capacità tecniche sia di lettura sia di concertazione sapesse unire una sensibilità e una cura affatto speciali: soprattutto per la concezione dei tempi e della dinamica, fattori essenziali per afferrare le intenzioni di una musica che, come avrebbe detto Furtwängler, «stava dietro le note», e non si accontentava più neppure di esecuzioni soltanto «corrette».
La critica alle istituzioni e alla organizzazione della vita musicale tedesca dell’epoca s’intreccia con la riflessione assai profonda e documentata sui concetti tecnici ed estetici dell’interpretazione musicale. Wagner attacca duramente la situazione asfittica delle orchestre di corte e dei teatri, ferme a incorreggibili assuefazioni, e accusa apertamente di mediocrità e di viltà la maggior parte dei direttori tedeschi, «persone che in quattordici giorni “”allestiscono”” un’opera, che sanno “”tagliare”” assai energicamente e che inseriscono in partiture d’altri “”cadenze”” di grande effetto per le cantanti». Nell’aeropago della corporazione, egli distingue due specie fondamentalmente diverse: quella dei «decadenti musici tedeschi di vecchio stile» e quella, sorta in opposizione alla prima, degli «eleganti musicisti di nuovo stile», preoccupati di mantenere la propria posizione di Kapellmeister fra intrallazzi di ogni genere più che di servire la musica con il cuore e con lo spirito.
Wagner nega che un’accresciuta cultura del virtuosismo, segno superficiale dei tempi nuovi, possa bastare per affrontare nella sua globalità l’esecuzione di un brano musicale. Qui non si tratta di realizzare con la tecnica, ma di comprenderne alcuni elementi fondamentali. Che vanno individuati prima di tutto nella necessità di stabilire il tempo esatto e la relazione fra le parti sul piano della agogica e della dinamica. Guida in tal senso è l’esatta comprensione del melos, che dà anche l’esatto movimento. E «se i nostri direttori non sanno nulla del tempo esatto», la ragione è che «non capiscono nulla di canto». Per essi canto vale tutt’al più melodia spiegata e chiusa, e non anche tempo, ritmo, accento, in una parola sostanza drammatico-musicale in tutta la sua espansione, vocale e sinfonica. Non è un caso che fra le esperienze rivelatrici della sua vita Wagner citi «il canto con accentazione precisa» (ossia declamato) e «pieno di sentimento della grande Schröder-Devrient» nel Fidelio.
Fra i due tipi fondamentali di tempo, l’Adagio si basa sul suono tenuto (il canto), l’Allegro sul movimento ritmico (la figurazione). Suono tenuto e movimento figurato orientano il modo di interpretare la musica e di renderla non solo diversamente espressiva ma anche significativa ed esatta in se stessa. Quello che nell’Allegro viene espresso dal variare delle figurazioni, nell’Adagio parla attraverso l’infinita molteplicità delle inflessioni del suono: bandite sono la rigidità del tempo e l’uniformità del «mezzoforte». Tutto ciò che si trova fra questi due estremi si attua per mezzo della modificazione del tempo, in sostanza il vero principio vitale di tutta la musica.
A questa capacità di modificare il tempo senza perdere i connotati distintivi, Wagner annette la più grande importanza. Ben lontano dallo spalancare le porte all’estro fantasioso di ogni battitempo attento all’effetto e infatuato di se stesso, ma anche deciso a sottrarre l’esecuzione musicale alle pigre e incolori consuetudini della Kapellmeisterei, Wagner indica così quale sia il vero compito del direttore d’orchestra: conferire libero slancio e freschezza vitale alla pagina scritta, ricreandola nella sua integrità così come l’autore l’aveva immaginata. Con le sue considerazioni e con i suoi esempi, il saggio wagneriano sulla direzione d’orchestra è una vera miniera di istruzioni pratiche per avvicinarsi a ciò che è, in musica, l’interpretazione: trasformare i segni scritti sulla carta, e ciò che sta fra le righe, in un processo organico di generazione e di crescita.
Richard Wagner, «Del dirigere», a cura di Francesco Gallia, Studio Tesi, pp. 100, lire 22.000
da “”Il Giornale””