Roma – Fra le grandi opere del repertorio russo dell’Ottocento Il principe Igor è una delle meno rappresentate. Problemi testuali, prima ancora che di realizzazione scenica, concorrono a renderne precaria la circolazione: giacchè Borodin non solo non ne portò a termine la composizione, pur considerandola il lavoro principale di tutta la sua vita, ma non ne completò neppure l’orchestrazione, salvo che per alcune parti; compito, quest’ultimo, che poi si accollarono fedelmente Rimskij-Korsakov e Glazunov.
L’apparizione all’ultimo momento del Principe Igor in forma di concerto nel cartellone dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia (proprio mentre l’Opera di Roma incivilmente cancella una Dama di picche già programmata) è stata un bel regalo, per almeno due motivi. Il primo stava nella versione adottata, integrale nel prologo e nei primi due atti, ricondotta allo stato del manoscritto (dunque con alcuni tagli rispetto all’edizione consueta) nel terzo e quarto; col ripristino, nel terzo atto, della grande aria del protagonista, da poco riscoperta e strumentata da Jurij Falik. Borodin era apparentemente il meno coinvolto nella poetica nazionalistica e riformatrice del Gruppo dei Cinque, anche a causa del suo impegno ben altrimenti concreto nella vita sociale, come medico e scienziato. Eppure la sua opera oscilla di continuo, con ricchezza sorprendente di trovate, tra contrasti di sentimenti individuali e ampi squarci corali, nei quali il popolo diviene attore e testimone consapevole di un dramma universale, eterno: al punto da non lasciar piú distinguere tra personaggi positivi e negativi, tra realtà e finzione. Le famose danze polovesiane sono un esempio di musica «barbara»: ma la radice comune è in quella scoperta di un modo di sentire la musica che parla e ama il proprio mondo immedesimandosi nei diversi linguaggi.
Il secondo motivo di interesse era costituito invece dall’esecuzione, affidata ai complessi del Teatro Kirov di San Pietroburgo e al loro bravissimo direttore stabile Valerij Gergiev. Costui, che pure potrebbe avere una carriera personale splendida, si è imposto il compito di fare del Kirov uno dei teatri che conteranno in avvenire. Dopo aver lavorato sodo in sede, ne presenta i primi risultati con lunghi giri nel mondo, a diffondere soprattutto i testi meno noti dell’opera russa, in versioni finalmente attendibili. È un lavoro di diffusione capillare e ostinato, di cui si intuisce la portata anche «politica». Se lo stato della musica e delle istituzioni in Russia e dintorni è questo, il futuro è già incominciato.
Coro meraviglioso, orchestra potente e duttile, solisti di canto intensi e affiatati, disciplinati come lo erano un tempo le compagnie stabili, ormai scomparse dai nostri teatri. In fondo, anche questo credere alle missioni è cosa tanto rara oggi quanto inequivocabilmente russa.
da “”Il Giornale””