Quartetto Alban Berg

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A prima vista non verrebbe spontaneo accostare il nome del Quartetto Alban Berg a quello di Mozart. Sono altri gli autori che hanno costituito nel tempo la fama del complesso: i compositori della seconda Scuola di Vienna prima di tutto, nel segno del nome che il Quartetto si è scelto; e poi Beethoven (soprattutto l’ultimo Beethoven, quello dei problematici e ardui ultimi Quartetti, resi dal Berg in una visione interpretativa tutta proiettata in avanti, verso la contemporaneità), Schubert (la loro “”Morte e la fanciulla”” è un capolavoro di lucida tragicità, nello spirito di una danza macabra che sembra davvero provenire da un doloroso distacco dal mondo), Brahms (visto nell’ottica schönberghiana di un musicista “”progressista””, dove il pensiero si fa ricerca di un nuovo linguaggio). Insomma, il Berg ci appare come un Quartetto particolarmente a proprio agio, oltre che nelle avventure della modernità dichiarata, nelle pagine romantiche e tardo-romantiche, quelle che segnano un passaggio nella conquista di una dimensione del comporre che ha perduto i connotati della classicità, o che alla classicità anela come a un miraggio, con nostalgia pari alla coscienza della lontananza. Come si pone Mozart in questo contesto? Anzitutto va precisato che ad essere rappresentato qui, rispecchiando una scelta coerente di repertorio sostenuta in una enorme attività concertistica, è il Mozart degli ultimi Quartetti, al quale la patente di “”classico”” spetta certamente di diritto ma non esaurisce carattere e stile di lavori che hanno nella continua inventiva e sperimentazione il loro tratto distintivo. Si tratta per l’esattezza dei sei Quartetti K. 387, K. 421, K. 428, K. 458, K. 464 e K. 465 dedicati a Joseph Haydn e a lui inviati con una famosa lettera di accompagnamento il 1° settembre 1785, del Quartetto K. 499 detto “”Hoffmeister”” dal nome dell’editore viennese che l’aveva commissionato (1786) e dei tre Quartetti K. 575, K. 589, K. 590 noti con il titolo di “”Prussiani”” in quanto “”ordinati”” nel 1789 dal re di Prussia Federico Guglielmo II: incontestabilmente capolavori del genere quartettistico e della storia della musica in generale, ma soprattutto miniere dalle quali gli interpreti possono estrarre svariate qualità di metalli preziosi.
    Le registrazioni di cui ci occupiamo appartengono agli anni d’oro del Quartetto Berg, essendo state realizzate tra il 1976 e il 1979, quando la formazione era ancora quella originaria: Günter Pichler primo violino; Klaus Maetzl secondo violino (dal 1979 Gerhard Schulz); Hatto Beyerle viola; Valentin Erben violoncello. Per quanto l’identità del complesso non sia fondamentalmente mutata con le successive sostituzioni (con l’eccezione forse della perdita della carismatica presenza della viola Beyerle), questa formazione è quella che ha creato il mito del Berg, sia per l’eccellenza individuale di tutti i componenti sia anche per l’omogeneità e la personalità raggiunte dall’insieme, pervenuto proprio in questi anni a un grado di qualità nella fusione che rasenta se non rappresenta la perfezione. Ed è appunto questo duplice aspetto a dover essere sottolineato in primo luogo: da un lato la tecnica inappuntabile, sotto il profilo sia dell’intonazione adamantina sia della resa strumentale nel suo complesso, il virtuosismo nitido, prosciugato, essenziale; dall’altro l’unità e la concordanza di intenti, che fanno sì che si ascolti non quattro ottimi strumentisti che suonano insieme ma un unico corpo musicale organico e in sé compiuto. Queste doti elementari non vanno sottovalutate quando si esegue Mozart, anzi ne sono presupposti basilari: la purezza del suono, la trasparenza dei piani sonori, la chiarezza del fraseggio, la luminosità dell’effetto risultante sono valori che balzano subito in primo piano e che caratterizzano splendidamente queste esecuzioni del Berg. Come a voler dire: cominciamo con il togliere tutte le incrostazioni che si sono sedimentate sulla pagina scritta e riportiamola alla sua originaria freschezza e nudità, in modo da farla risuonare di per se stessa nella sua semplice, eloquente verità. Ecco, il primo aggettivo che ci viene in mente per definire la visione mozartiana del Berg è: vera. E poi calda, seppur governata con sovrano dominio della forma.
    Alla verità si aggiunge un altro tratto non meno importante che viene colto con altrettanta sicurezza: la necessità del discorso. Si vuole alludere al fatto che nella esecuzione del Berg si avverte ad ogni passo il filo logico che regge l’intero sistema compositivo, di modo che il processo ad esso sotteso (o per meglio dire interno, giacché di questo tratta) si evidenzia in tutta la sua misura fatta di contrasti e di equilibri in simmetrica corrispondenza. Ed è un modo di costruire musica che ci appare alla fine assolutamente naturale, perfettamente strutturato, necessario appunto nella sua  spiccata individualità. Nei Quartetti a lui dedicati, l’influenza di Haydn, il primo che aveva concepito una logica discorsiva fondata su se stessa, traspare non tanto nell’espressione musicale quanto nell’atto di proseguire sulla strada indicata di una nuova concezione del lavoro tematico: ed è un cammino che oltre ad affinare il linguaggio haydniano porterà a conferire a strutture formalmente simili infinite ricchezze e sfumature. Senza alterare gli equilibri di fondo, il Berg ci porta per mano a scoprire questi tesori, ad apprezzarli e perfino a meravigliarcene, per poi, dopo averli quasi isolati nella loro bellezza, riconsegnarli al ruolo che compete loro nella forma del quartetto. In altri termini, si compie da parte degli esecutori ciò che dovrebbe rimanere sempre obiettivo fondamentale dell’esecuzione stessa: l’analisi e la sintesi in reciproca armonia.
    Naturalmente il Berg innesta su questa ben individuata concezione la propria personale idea o visione che potremmo chiamare interpretativa. Essa si basa su un principio che ci sentiamo di condividere in pieno: Mozart non ha bisogno di sovrapposizioni o forzature ammiccanti, ma soltanto di una adeguata capacità di comprendere nell’intimo la sostanza, interiore e apparente, delle sue creazioni. Altrimenti detto, occorre rendersi consapevoli della profondità della sua musica ma al tempo stesso saperla ricreare con spontaneità e naturalezza. Ciò vale in modo particolare per questi lavori, tanto illuminati e determinati da essere nella loro serietà e concentrazione lontani da qualsivoglia mondanità e spettacolarità. Nella conversazione familiare, all’apparenza sempre amabile e cordiale, dei quattro archi Mozart seppe dissimulare neologismi di rara intrepidezza, aperture di audace novità e modernità. Gli uni e le altre non sfuggono all’acuta intelligenza del Quartetto Berg, ma non sono mai estrapolati dal contesto per amore di stupire: individuati sì, ideologizzati no. L’aura segreta, velata, rivolta verso sfumature interiori non viene disturbata da intenzioni divergenti, neppure là dove se ne offre teoricamente la possibilità. E’ noto che soprattutto nel Quartetto K. 465 detto “”Delle dissonanze”” Mozart ampliò il campo sonoro, le regole e gli equilibri dell’armonia tradizionale fin quasi all’inaudito. Le prime battute dell’Adagio iniziale presentano note lunghe, tese, dissonanti (un La bemolle sullo sfondo di un La naturale), tanto audaci da essere state ritenute un “”errore”” di composizione. Ci si aspetterebbe dal Berg una sottolineatura enfatica di questo passaggio radicale, sconvolgente, quasi assurto a simbolo “”storico”” dell’infrazione al sistema tonale. Pur senza rinunciare a dare il giusto peso a un esempio preclaro di sperimentazione armonica, i nostri musicisti colgono invece la funzione strutturale di questa forte impressione musicale, che è quella di rendere più vivace il contrasto con lo scioglimento progressivo del nodo, con il ritorno a una trama più limpida, evocando stati d’animo mutevoli che sembrano aprirsi maggiormente sul mondo: una sorta di “”conciliatio oppositorum”” che sul piano emotivo si traduce in quella mutevolezza tra serenità e tristezza, tra crisi e certezza, tra dramma e catarsi che contraddistingue enigmaticamente tutta l’arte di Mozart.          
        Ascoltiamo dunque gli ultimi Quartetti di Mozart per quello che sono, ben sapendo che essi bastano da soli a rendere giustizia al genio del loro autore, senza bisogno di trasposizioni di spazio o di tempo. Il lucido insegnamento che ci viene dal Quartetto Berg  sta nel rispetto della musica, nella felicità di esserne tramite: un dono che appartiene ad interpreti di alta classe, non oscurato dall’ambizione di apparire, frutto di capacità tenace, sapere e sentire.
    

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