Quanto è bella, quanto è cara…

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Ritorna «L’elisir d’amore», un sottile miracolo

Domenica prossima 30 settembre con L ‘elisir d’amore di Donizetti si inaugura la stagione lirica d’autunno al Teatro Comunale di Firenze. Interpreti dell’opera – che sarà diretta da Gianluigi Gelmetti – saranno Luciana Serra, Alfredo Kraus, Alessandro Corbelli, Giuseppe Taddei e Patrizia Fedeli.

Lo spettacolo – di cui fino al 28 ottobre verranno date otto rappresentazioni – si varrà della regia di Luciano Alberti, attuale direttore artistico del Comunale, avrà una scenografia di Alessandro Sanquirico realizzata da Raffaele Del Savio, la coreografia di Martin Fredmann, i costumi a cura di Anna Anni. Direttore dell’allestimento è Raoul Farolfi.

Naturalmente l’opera donizettiana sarà eseguita con l’orchestra, il coro (diretto da Roberto Gabbiani) e il corpo di ballo del Maggio musicale fiorentino; maestro al pianoforte Marcello Guerrini; tromba: Tolmino Marianini.

Ci sarà un avvicendamento di cantanti nei quattro ruoli principali. In tre rappresentazioni il ruolo di Adina sarà ricoperto da Antonella Bandelh e quello di Nemorino da Dones Gulvas. Nell’ultima rappresentazione Giancarlo Ceccarini sosterrà la parte di Belcore e in altre due Simone Alajmo interpreterà Dulcamara.

Le prime cinque rappresentazioni sono in abbonamento; le due successive fuori abbonamento; l’ultima per le associazioni e i gruppi regionali.

Tutte le rappresentazioni avranno inizio alle ore 20, tranne l’ultima prevista per le ore 16.

 

In una produzione teatrale che comprende circa settanta lavori, molti dei quali riproposti all’attenzione del pubblico soltanto in questi ultimi decenni, L’elisir d’amore è una delle quattro, cinque opere di repertorio a cui è legata la celebrità di Donizetti. Composta in sole due settimane, su testo del librettista Felice Romani ricavato dalla commedia Le philtre di Eugène Scribe già destinata ad Auber, essa segnò una svolta nella carriera dell’operista bergamasco, fin dalla prima rappresentazione al Teatro della Canobbiana di Milano il 12 maggio 1832. Ma al di là del successo, del resto non nuovo per Donizetti (proprio a Milano un anno e mezzo prima aveva trionfato la sua Anna Bolena) , L’elisir d’amore costituisce una novità e un salto qualitativo dal punto di vista delle caratteristiche linguistiche e formali, se le riferiamo alle tradizioni operistiche nelle quali Donizetti era cresciuto e maturato.

Problematico risulta anzitutto definire il genere. Melodramma, come intestano il libretto e lo spartito, oppure opera comica, come portano la maggior parte dei cataloghi e come lascerebbe supporre l’esile trama della commedia? E dunque, opera ingenua e sorridente di favolosa ambientazione paesana (il paese dei Baschi. nientemeno) ovvero confessione romantica venata di patetismo e di malinconia, quasi emblematicamente racchiusa nella grande romanza «Una furtiva lagrima», preesistente all’opera e imposta da Donizetti al suo librettista? Sul piano linguistico e formale queste ambiguità, che rappresentano in parte l’innovazione dell’opera, permangono.

Sul piano linguistico: la presenza intermittente, ma carica di significati, del clavicembalo nei recitativi secchi, di un’orchestra particolarmente espressiva in quelli accompagnati, contrapposta, all’altra estremità, da un empito sinfonico che travolge tanto la convenzionalità delle situazioni «buffe» quanto la distesa cantabilità dei momenti lirici, ariosi. E sovente, questi estremi, riavvicinati fino a toccarsi. Per fare un solo esempio, certo il più alto: la prodigiosa successione nel finale dell’opera, dove dal culmine sinfonico-vocale della romanza di Nemorino («Una furtiva lagrima», aperta dal memorabile solo del fagotto), si ridiscende di colpo al recitativo secco («Eccola… Oh! qual le accresce»), si passa poi al recitativo accompagnamento (Adina: «Dimmi: perché partire»), per ascendere simmetricamente al culmine espressivo dell’aria di Adina («Prendi, per me sei libero») e di lì sfociare nel duetto, e di lì ancora, senza interruzione, nell’apoteosi finale. Psicologia e senso del teatro in una padronanza perfetta dei mezzi compositivi si danno qui la mano, fuor d’ogni convenzionalità.

Donizetti a differenza di Rossini — il suo grande modello della stagione giovanile non forza però i limiti, e non sconfina nell’angoscia. Ricerca più sottili equilibri in una fusione dei generi che indubbiamente si apre ad accogliere le istanze della nuova età romantica.

L’elisir d’amore sintetizza questo momento in modo gioioso e incantato, così come Don Pasquale, undici anni dopo, lo rivivrà in maniera disincantata e amara. Qui, a differenza di là, ciò avviene, per dirla con una formula, più sul piano formale che su quello contenutistico. E il gioco di Donizetti ha frecce acuminate. Nell’Elisir d’amore l’arco talvolta si allenta, ma soltanto per evidenziare nuove conquiste e nuovi slanci. Sintomaticamente, esse si dispongono, quasi a definire un cerchio, all’inizio e alla fine dell’opera. Del finale si è detto. L’inizio: dopo il breve preludio, inarticolato e carico di attese, e il convenzionale coro d’introduzione, la presentazione dei personaggi avviene secondo un principio d’incastri che già lascia emergere e condensa, ad alto livello sotto il profilo musicale, i diversi caratteri: in modo più lineare e plastico quelli di Belcore e Dulcamara – tipi ormai consolidati da una lunga tradizione operistica – , maniera più sfumata e indiretta quelli di Nemorino e Adina.

Se la Cavatina di lui («Quanto è bella, quanto è cara») dipinge fin dalla scelta della tonalità di do maggiore un palpito amoroso trasparente ed elementare, l’entrata di lei è mediata dalla lettura della storia di Tristano e Isotta e del fatale filtro d’amore. Coincidenza curiosa, se si pensa a che cosa questo spunto, qui suggerito dalla artificiosa fantasia di Scribe, avrebbe poi significato per la storia della musica. Ma nessun altro riferimento, chiaramente, è possibile: la conquista dell’amore, nell’opera di Donizetti, è ancora commensurabile con la realtà. E costa, nell’eleganza finzione dell’irrealta, soltanto venti scudi, e qualche fuggevole sospiro di malinconia.

da “La Nazione”

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