Le note e la modernità: Alessandro Baricco firma un polemico saggio che è anche un piccolo giallo
Chissà, forse senza neppure volerlo Alessandro Baricco ha scritto, piú che un saggio di critica musicale, un piccolo romanzo giallo, un racconto affascinante che ha per protagonisti quattro personaggi emblematici della nostra epoca, sullo sfondo del nostro rapporto con la musica e con la civiltà. Quando lo sfondo diviene primo piano si può avere l’impressione che il racconto assuma il tono di un pamphlet, di un apologo morale: ma sarebbe un’impressione fuorviante nella sostanza. La qualità sempre straordinaria della scrittura, l’incisività delle idee e la forza delle immagini, sono elementi che s’impongono con evidenza perentoria, con efficacia invidiabile: soprattutto quando della realtà riflessa danno una visione trasfigurata, e della storia esemplificata per cosí dire inchiodano momenti decisivi a un preciso senso di responsabilità. E in quei momenti sentiamo che Baricco scioglie le sue tenaci certezze in dubbi che ci riguardano e ci costringono a prendere posizione.
A ciascuno dei quattro protagonisti della storia è destinato un capitolo, ma le loro vicende s’intrecciano nell’arco di un tempo che fugge e che incalza, dai confini insieme delineati e immaginari: la riflessione sulla musica dell’ultimo secolo e sul suo modo d’essere intesa, consumata nella società contemporanea, modula continuamente verso tonalità ora affini ora lontane, alla ricerca di un senso perduto che non possa prescindere dalla ridefinizione di un gesto capace – è la chiusa del libro – di «restituire la musica del nostro tempo al tempo che è nostro».
I quattro protagonisti sono nell’ordine l’idea di musica colta, l’interpretazione, la Nuova Musica, la spettacolarità. Non si tratta, come pure la terminologia potrebbe far pensare, di entità astratte, bensí di presenze concrete in un racconto che Baricco sa far lievitare individuando atti, intenzioni, pratiche, caratteri, umori. Ciò che vi figura si muta impercettibilmente in ciò che dovrebbe o vorrebbe essere, e viceversa. Ne emerge un groviglio di contraddizioni e di interrogativi che non escludono tuttavia la possibilità di un sistema entro cui convogliare la marea vorticosa, instabile di tutto quello che oggi si manifesta attraverso la musica. Per trovare alcuni punti fermi. Baricco li fa scaturire dopo aver fissato due poli negativi: da un lato l’ostinata pretesa della superiorità della musica colta su ogni genere di musica di consumo (un principio per tradizione fossilizzatosi nell’idea della sua «diversità», del suo «primato culturale e morale», e replicato nel culto delle anime belle per l’elevato sentire ideale); dall’altro le avventure sempre piú elitarie e drasticamente rifiutate dal grande pubblico, anche da quello disposto ad ammettere la complessità, la natura spirituale e artistica della musica cosiddetta seria rispetto a quella leggera; della Nuova Musica. Per quest’ultima Baricco non esita a parlare di truffa istituzionalizzata, accusando le ideologie progressiste di essersi prestate a fungere da fiancheggiatrici, senza differenziazioni. Forse Baricco avrebbe potuto aiutarci a fare queste distinzioni, portando degli esempi. L’unica digressione di una certa ampiezza riguarda Webern. Ed è discutibile l’affermazione secondo la quale nella sua idea di musica non vi fosse continuità col passato ma rottura anticipatrice di strappi insanabili, che lo scenario della modernità si sarebbe poi incaricato di portare all’assurdo.
Due concetti, compresi nei capitoli pari, sviluppano invece argomenti propositivi. Il primo riguarda l’interpretazione. Da intendersi non tanto come atto piú o meno fedele di riproduzione di un testo, bensí come «esistenza postuma», «vita seconda»: ed è questa «reinvenzione» a fare «di un prodotto musicale un’opera d’arte, sottraendola alla logica del consumo puro e semplice». Questa visione dell’interpretazione, se da un lato è aperta sugli orizzonti della modernità (e non può fare a meno di accogliere l’aspetto spettacolare che le è proprio: Baricco indica in Puccini e Mahler i precursori di questa tendenza), dall’altro lato presuppone un superamento, e diviene rivelazione di un momento di verità: per recuperare nel tempo che l’accoglie l’idea di una trascendenza lontana dai riti ripetitivi dell’ascolto e vicina piuttosto a un compito maieutico. Partito da attacchi violenti e da impietose condanne di una fenomenologia Baricco sembra additare alla fine l’epifania di un senso: vivere la modernità e resisterle, costruendola e non semplicemente consumandola. E se è finita l’epoca in cui le opere d’arte rispecchiavano in modo organico realtà individuali e bisogni collettivi, niente può impedire che esse continuino ad accadere, quali «oggetti di desiderio nel rito del loro corteggiamento al proprio mondo».
Le due citazioni poste in epigrafe e che danno il titolo al libro sono così da intendersi in senso non solo critico. In fondo Hegel dà una definizione della musica che coglie questo processo eternamente in divenire, estensibile a ogni tipo di musica. Quanto alle mucche del Wisconsin che ascoltando musica sinfonica aumentano la produzione di latte del 7,5%, ciò che le differenzia dagli uomini è che in questi ultimi la produzione è di gran lunga superiore, in pensieri e in emozioni: non rifugio in regioni consolatorie del puro sentimento ma appunto rivelazione dell’anima e del mondo; scoperta, continuamente differita, di brandelli di verità, che si ricompongono in noi stessi, secondo le possibilità e le inclinazioni di ciascuno.
Alessandro Baricco, «L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin. Una riflessione su musica colta e modernità», Garzanti, pp. 99, lire 18.000
da “”Il Giornale””