Prato: Atys

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Che peccato. E che spreco. Uno degli spettacoli più belli della stagione, senza dubbio il fiore all’occhiello dei festeggiamenti di Firenze capitale europea della cultura, relegato nella sede decentrata del Metastasio di Prato, a ridosso delle feste natalizie. Realizzato dal Teatro Comunale in coproduzione con 1’Opéra di Parigi e l’Opéra di Montpellier, il tributo al grande concittadino Jean-Baptiste Lully, emigrato a Parigi per divenire il Gran Re della musica nel secolo del Re Sole, avrebbe meritato ben altra collocazione e pubblico. Non foss’altro per testimoniare quali scoperte si possono ancora fare in una serata d’opera fuori del repertorio consueto, quando si realizzi per magico incanto l’incontro dell’intelligenza e dell’emozione.

Scoperta perfino inattesa. E difficile da raccontare. Di Lully, e di quel genere tragico musicale ch’egli creò per il fasto di una corte sontuosa, tanto incline a lasciarsi andare alla commozione quanto fiera del suo aristocratico distacco, si è portati istintivamente a diffidare come di cosa lontana dal nostro gusto, irrimediabilmente passata, probabilmente noiosa. Le storie della musica codificano il fenomeno della tragédie-lyrique con belle parole, piene di rispetto e di comprensione; ma per aggiungere che poi verranno Rameau e la riforma di Gluck, e solo allora in Francia, magari dopo ancora fuori, nascerà il “”vero”” teatro musicale, quello che dovrebbe toccarci con la perfetta dosatura di ariosità belcantistica e unitarietà drammatica. Al diavolo le etichette.

Questa Atys, anno di grazia 1676, quarta opera nata dalla collaborazione del compositore Lully e del librettista Quinault, sembra fatta apposta per sconvolgere le attese, mortificare la saccenteria dei musicologi, esaltare le capacità ricettive dell’ascoltatore impreparato, grato alla fine della rivelazione.

Perché ad onta delle sofisticate convenzioni di cui è intessuta – l’antico mito traffico, l’aulica compostezza dei versi alessandrini, l’eterogeneità stilistica degli inserti strumentali, del declamato, dei cori e delle danze – Atys è tutt’altro che un cerimoniale d’al-

tri tempi e costumi ma una partitura d’incredibile fascino spettacolare e di strordinaria densità espressiva, retta da un progetto drammaturgico d’amplissimo respiro. La stessa varietà degli elementi che la compongono, se non mira a definire una parabola di continuità drammatica basata sul principio della massima economia di cause ed effetti, è guidata da intrecci e ritorni che sottendono un arco formale disposto con tale sensibilità e sapienza da riuscire immediatamente convincente: solo che si riesca ad entrare nel clima e nel senso del tempo in cui vive.

Questa funzione è assegnata al Prologo che presenta gli ingredienti della tragedia sotto forma di simboli, quasi a voler prendere le misure al ritmo dell’azione. La quale, articolata nei canonici cinque atti, segue uno svolgimento continuamente differito da pause e sospensioni – occasione preziosa per il gusto decorativo dell’apparato scenico e delle celebrazioni coreografiche – ma non cessa di focalizzarsì sul destino dei personaggi, per lasciarne emergere il dramma individuale, per successive accumulazioni e stratificazioni. Atys, che ama Sangaride, promessa sposa del re Celaenus è amato dalla dea Cybèle: inevitabile, dopo molte peripezie e agnizioni, il suo sacrificio, riscattato dalla dea con la trasformazione di Atys in pino, albero sacro al suo culto.

Su questo intreccio, la musica di Lully scorre come un fiume rigoglioso e maestoso, solenne e tranquillo alla superficie, ma agitato nel profondo da vortici e correnti che si contrastano con forza crescente: una sonda ne registra i movimenti con perentoria esattezza. È per mezzo di un declamato flessibile e morbido, ora sublimazione di un recitativo, ora premonizione di un’aria, capace dunque di scuotere l’attenzione con un semplice salto d’intervallo, o di interiorizzarsi con un’improvvisa planata nel modo minore, che Lully scandaglia al di sotto dell’austera superficie oratoriale un sentimento, un brivido, una gioia, un’attesa, una decisione, un’angoscia; accomunando dei e uomini, mito e storia, realtà e finzione teatrale, nella verità di un’esperienza tanto più vertiginosa quanto ogni volta trattata con superiore controllo, prima del limite di rottura: lasciandosi dietro tuttavia un’aura di mestizia, un’ombra di fascinazione patetica irrisolvibile in lieto fine, e forse neppure interamente traducibile nella catarsi che riconcilia con la natura. L’opera si chiude con un’accorata trenodia attorno al corpo dell’eroe: rito di consacrazione che maschera una disfatta. Ma la vera chiave di volta della tragedia è il sogno di Atys, che cade alla metà esatta dell’opera (scena quarta del terzo atto: anche gli antichi s’intendevano di strutture). Questa pagina sconvolgente sembra anticipare la discesa nei meandri dell’inconscio che caratterizza tante opere moderne; e la rappresenta con un’evidenza drammatica di terribile grandiosità, non solo spettacolare. Evidentemente Lully poteva permettersi molto, anche davanti alla Corte.

Sarebbe impossibile scindere l’impressione ricevuta da questa prima ripresa moderna di Atys dall’esecuzione che ha fatto rivivere l’opera in modo così splendido, tanto da fondersi totalmente con essa. Il complesso “”Les Arts Florissants”” diretto da William Christie, coadiuvato dal gruppo di danzatori “”Ris et Danceries”” di Francine Lancelot, usa gli strumenti originali con una fantasia e una musicalità da veri virtuosi, da far arrossire di vergogna quanti ironizzano per partito preso sui revivals filologici. Anche la scena di Carlo Tommasi era ispirata a una ricostruzione filologica della Versailles di Luigi XIV; calata però in un’atmosfera onirica di forte suggestione ambientale, lontanissima da intenti archeologici e adattissima invece a illuminare, magari per immaginazione, i due livelli sui quali Jean-Marie Villégier ha disposto la sua regia: quello del fasto del Grand Siècle, con i propri usi e costumi della recitazione, e quello della illusione teatrale senza tempo, che canta le passioni umane in musica rendendole vicine alla nostra sensibilità. Impostazione assimilata alla perfezione, fin nei dettagli d’un gesto, d’una inflessione, dalla meravigliosa schiera di cantanti-attori che impersonavano, anche scambiandosi i ruoli nel corso delle recite, gli oltre venti personaggi dell’opera.

Di tutto ciò siamo stati in pochi, ma davvero pochi, a godere, a Prato. Che peccato. E che spreco.

Musica Viva, n. 3 – anno XI

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