Poppea moderna, ma perché?

P

Pubblico perplesso a Firenze per una discutibile rilettura di Monteverdi

Firenze – Terza e ultima opera della stagione, L’incoronazione di Poppea tornava al Comunale in un allestimento importato dal Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles, presentato come uno dei fiori all’occhiello della gestione di Gérard Mortier, ora direttore del festival di Salisburgo. Un’occasione, dunque, non soltanto per riascoltare uno dei testi mitici della storia del melodramma, raramente ospitato dai nostri teatri, ma anche per verificare una tendenza che si è fatta un certo nome in ambito internazionale.

Questa tendenza ha ormai messo radici dovunque e si basa sull’importanza data al cosiddetto teatro di regia, naturalmente «moderno». Quello visto ora a Firenze ne è un tipico prodotto in versione speciale. Cioè con tutti i requisiti che conosciamo bene, spinti però all’eccesso verso un’attualizzazione nella quale la regia si serve della musica e del testo per seguire speculazioni schizofreniche, contrastanti e incoerenti. Uno spettacolo tanto estraneo alla tradizione del melodramma quanto insensibile a quelle chiarificazioni che sempre piú sono necessarie nell’impresa di restituire finalmente Monteverdi alla coscienza del pubblico, alla dignità altissima del suo teatro.

Si dirà che le scene di Erich Wonder, con quei siparietti stralunati che già avevamo visto pari pari in un’infelice Tetralogia a Monaco, non sono privi di una loro suggestione visiva; che Luc Bondy, come aveva già fatto due anni fa nel Don Giovanni a Vienna, cura la recitazione e usa le luci con perfida, maniacale esattezza: ma francamente questi mezzi, in teoria tendenti a scoprire meccanismi teatrali sospesi su spazi e tempi indefiniti, che non hanno un’epoca precisa né un’identità storica, e vorrebbero dunque avvicinarci a una sorta di assoluto incondizionato del teatro come specchio di metafore, si rivelano all’atto pratico vuoti e soprattutto falsi.

In Monteverdi c’è poi la questione della realizzazione della partitura, nel caso della Poppea tutta da ricostruire. È, questo, il nodo centrale da sciogliere per un autore che nella condotta vocale e nella tensione drammatica appare, con nuova emozione ogni volta che l’ascoltiamo, l’inventore in nuce di tutto ciò che il melodramma avrebbe sviluppato in seguito. Ma che cosa rimane di questa materia, capace in sé di vincere le resistenze di proporzioni quasi wagneriane, se i suoi elementi vengono scaraventati nel calderone di una strumentazione spaziante dal clavicembalo al sintetizzatore, passando per tutti gli stilemi dì quattro secoli e mezzo di musica e di suoni distorti? Il collage proposta da Philippe Boesmans tentava l’impossibile mediazione tra filologia e libera reinvenzione, dell’una mantenendo solo per vaghi accenni il disegno, dell’altra mostrando una varietà di possibilità sulle quali non veniva fatta una scelta.

La compagnia e il direttore Jan-Latham Koenig difettavano soprattutto nell’attenzione alla parola cantata, nella flessibilità richiesta dal ritmo e nella ricerca di una chiara dimensione stilistica. Ognuno sembrava portare la propria esperienza personale e cercare una verità dietro la musica, sforzandosi poi di renderla percepibile al pubblico. E per frammenti soprattutto Catherine Malfitano (Poppea), Trudeliese Schmidt (Ottavia) e Francesca Franci (Ottone, la piú sensibile al valore della dizione) riuscivano a illuminare il senso di questo percorso. Piú forzati Jacques Trussel (Nerone) e Malcolm King (Seneca), voci di non speciale finezza. Troppo abbandonati a se stessi i comprimari, tanti e valorosi. Pubblico, nonostante tutto, ammaliato da Monteverdi. E perplesso.

 

«L’incoronazione di Poppea» di Claudio Monteverdi al Teatro Comunale di Firenze (repliche i1 20, 22, 25, 27 e 31 marzo).

da “”Il Giornale””

Articoli