Ha interpretato a Londra per la prima volta insieme i due Concerti di Brahms con Sawallisch
Il prossimo 5 gennaio cinquanta candeline sul pianoforte
Londra – Maurizio Pollini e Wolfgang Sawallisch interpreti dei due Concerti per pianoforte e orchestra di Brahms al Royal Festival Hall con la London Philharmonic: l’incontro di due musicisti apparentemente così diversi per formazione e cultura ha offerto fortissime emozioni, in un clima incandescente di entusiasmo e di passione. Sawallisch, che a Londra ha completato il ciclo di incisioni delle Sinfonie di Brahms per la Emi eseguendo la Prima e la Terza è il primo a mostrare la sua soddisfazione per questo incontro: «Avevo già lavorato con Pollini ma mai come questa volta ho potuto conoscere il musicista che sta dietro al grande pianista. Con Pollini ogni nota è anche un modo per rimettersi in discussione e cercare in profondità i valori della musica. I Concerti di Brahms sono capolavori notissimi ma anche l’espressione di una civiltà che oggi appare sempre piú lontana, e che quando si ripropone con questa acutezza lascia sgomenti, ci trasporta quasi in un’altra dimensione spirituale».
Pollini – che sarà alla Scala nel ’92 per due concerti, il 27 gennaio e i13 febbraio – compirà cinquant’anni il prossimo 5 gennaio. Con lui, di solito restio alle interviste, abbiamo parlato di questa esperienza e di altre cose.
E la prima volta che lei esegue in pubblico i due Concerti di Brahms insieme. A parte la prestazione tecnica, comunque fenomenale, quale impegno si richiede all’esecutore?
«Sono Concerti che nonostante l’evidente grandiosità sinfonica recuperano una dimensione intima del pianoforte. Il pianoforte ha un ruolo concertante che tende a mettere sullo sfondo la brillantezza e l’apparato virtuosistico: l’elemento concertante è assolutamente essenziale, viene fuori nei movimenti finali e all’inizio con un carattere raccolto; e proprio da questa atmosfera intima, in relazione a quest’anima piú profonda del concerto, si sviluppa la straordinaria grandiosità dei momenti sinfonici. Riuscire a far coesistere questi due aspetti così come risultano nella concezione e nella scrittura assai complesse è estremamente difficile. Nel Primo Concerto, l’impianto sinfonico è piú marcato. La sua novità sta però nel fatto che rompe con la tradizione del concerto brillante alla quale per qualche elemento si possono ricollegare le opere di Chopin, Liszt e Schumann. L’atmosfera tragica dell’inizio ricorda piuttosto il do minore e il re minore di Mozart. Nel Secondo l’impegno piú arduo è sostenere e far comprendere l’arco che partendo dall’assolo del corno conduce ad un finale che non è eroico né brillante, ma rivolto piuttosto verso la musica da camera. È un finale enigmatico, nel quale si racchiude tutta la parabola di Brahms: l’atmosfera tragica è assorbita nel divenire della forma e nell’intimità, sublimata ma non dissolta. E questa è una caratteristica delle ultime opere di Brahms, dove anche il dramma ha una conclusione sempre meno trionfale. In quasi tutti i grandi musicisti, del resto, le ultime opere sono un enigma, un’apertura piú che una conclusione: basti pensare all’Arte della fuga, agli ultimi Quartetti di Beethoven, a Schubert e perfino a Liszt».
Lei ha eseguito separatamente i Concerti di Brahms con molti direttori. Che cosa cambia di volta in volta, e come avviene il lavoro di concertazione?
«L’ideale sarebbe preparare ogni Concerto come se fosse un pezzo di musica da camera. Non sempre è possibile. I tempi delle prove impongono di risolvere tutto nella pratica D’altronde l’elemento reale del far musica insieme è molto piú importante delle parole che s possono dire prima. Discutere a fondo è utile, ma ogni musicista sa che poi di fronte all’orchestra molte cose cambiano. È chiaro che facendo musica c si influenza reciprocamente ognuno, ha le proprie idee; nel momento in cui il confronto si attua nella pratica avviene i modo molto misterioso un scambio di sensibilità. Sono fenomeni strani che non si possono generalizzare: ogni personalità è importante e diversa».
Con Sawallisch ha ritrovato certe affinità che avevano segnato il suo lavoro anche discografico con Karl Böhm?
«Savallisch ha un senso dello stile magnifico, una chiara concezione del suono di Brahms, dell’architettura formale, come aveva anche Böhm. Di questi direttori e della loro scuola apprezzo la profonda serietà musicale, la grande semplicità che li porta ad evitare il superfluo e schivare ogni retorica».
La sua esperienza di direttore d’orchestra è definitivamente conclusa?
«Non ho mai pensato di diventare un direttore d’orchestra. Ad un certo punto ho voluto fare delle esperienze che arricchissero il mio bagaglio di interprete. La fusione completa tra solista e direttore rimane un ideale, ma neppure i Concerti di Mozart possono prescindere dalla figura di un direttore. Ciò nonostante il vantaggio di eseguire certi Concerti piú intimi in forma cameristica è evidente. Non tornerò a dirigere, anche se sono convinto che alcune esecuzioni in questa forma siano state un’esperienza importante. Di cui serbo bei ricordi».
da “”Il Giornale””