Poeti in ballo

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La danza fra Mallarmé e Cocteau secondo Sasportes

S i dà raramente, almeno in ambito musicale, che un libro di un autore portoghese venga tradotto in italiano, per di più con l’autorevole presentazione di Fedele D’Amico. Ma nel caso di José Sasportes e di questo Pensare la danza (che fra l’altro segue a breve distanza la pubblicazione di un altro suo volume su argomento affine, La scoperta del corpo, De Donato, 1988) la ragione è presto spiegata: Sasportes è infatti uno storico della danza di fama internazionale.

Sasportes è in primo luogo uno studioso della danza teatrale e della danza come spettacolo nel Novecento; e in particolare di quella che, nata in America con connotati chiaramente moderni, giunge fino ai nostri giorni. Ma con Pensare la danza il raggio della sua indagine viene spostato più indietro, a considerare nel suo complesso l’evoluzione avuta dalla danza in Francia tra il 1883 e i1 1928: ossia tra le prime annotazioni critiche di Mallarmé, tese a definire la natura della danza in senso estetico da un lato, e l’apparizione del1′Apollon musagète di Stravinskij e Balanchine, capolavoro della danza pura, dall’altro. Tra questi due estremi si colloca, quasi perno centrale, il fatto che avrebbe reso possibile un vero e proprio mutamento nella storia non solo della danza contemporanea ma anche dell’arte musicale e pittorica europea: la fondazione da parte di Djagilev, con la collaborazione di Picasso e Stravinskij, della compagnia dei Balletti Russi nel 1909.

In questo fertilissimo periodo, costellato di capi d’opera e di idee che spinsero a fare della danza un’espressione artistica indipendente, Sasportes individua due nodi cruciali (tanto cruciali da evidenziarli nel sottotitolo del libro) nell’influenza esercitata da pensatori per così dire esterni al terreno propriamente operativo della creazione coreografica: Mallarmé e Cocteau. Il pensiero estetico di Mallarmé, ripreso e sviluppato in forma eminentemente poetica nel famoso dialogo di Valéry intitolato L’anima e la danza, è un punto di partenza nel processo che condurrà, dal ripudio del virtuosismo fine a se stesso del balletto classico, verso l’autonomia della danza: con la conseguente rinuncia programmatica, in nome della creazione pura e astratta, a tutto ciò che richiami contenuti narraivi o drammatici, e pefino alla “tirannia” della musica.

Se Valéry rappresenta la posizione del poeta, capace di pensieri profondi sulla natura della danza ma sempre, come nota D’Amico, «sub specie lyrica», Debussy ci offre il modello del compositore puro, arroccato nei dominii della musica. Per lui il balletto non era un’«arte», ma soltanto un modo, lecito ma niente affatto indispensabile, di realizzare scenicamente una partitura musicale: e dunque un fatto che non riguardava in prima persona il compositore, bensì coloro che si servivano della sua opera per mezzi e fini diversi da quelli a cui essa era in origine destinata. Sotto tutt’altra angolazione, anche Cocteau vedeva nella danza una delle possibili componenti di uno spettacolo, ma non l’unica; e comunque sottomessa all’idea più generale di un progetto finalizzato altrove, di cui il coreografo (e in parte anche il compositore) non erano i veri e completi autori, ma solo gli interpreti, se non gli strumenti: si chiamassero pure, come nel caso del surrealismo agrodolce di Parade, Satie e Picasso. «Quello che andrà cercando Cocteau – sintetizza Sasportes – è un’arte in grado di liberarlo dal sublime dell’estetica wagneriana e dalla pompa multicolore dei Russi. Stretto tra questi due poli, gli era necessario scoprirne un terzo, che doveva rappresentare la vera via francese: semplicità, austerità, ritorno alla fonti ingenue ed infine, una volta aperta la strada, un cammino verso il rigore classico».

Che da punti di vista così disparati, spesso in contrasto fra loro, apparentemente inconciliabili, potesse nascere un modo di «pensare la danza» così tenacemente nuovo e proficuamente attivo, capace di incidere e lasciar traccia nei territori di tutte le arti e della cultura del Novecento in generale, si deve in grandissima misura a Djagilev e all’istituzione dei Ballets Russes a Parigi. Quest’azione, di cui Sasportes ricostruisce tutte le fasi individuando nell’avvento di Nijinsky il momento di più alto splendore, non aprì soltanto strade concrete all’autonomia della danza ma seppe anche ricondurre a unità di intenti contributi che provenivano dai campi di osservazione più diversi. La vera rivoluzione dei Ballets Russes fu quella di costringere tutte queste forze a collaborare con la cooperazione o con la critica, per trarne poi le conseguenze e costruire un «pensiero coreografico» che fosse espressione arricchita e potenziata di una cultura indipendente, moderna, vitale: facendo così della «nuova danza» ciò che per molti era stato fino ad allora soltanto una «danza sognata».

 

José Sasportes, «Pensare la danza. Da Mallarmé a Cocteau», trad. di Lavinia Cavalletti e dell’autore, rivista da Brunella Torresin, il Mulino, pp. 168, lire 20.000

da “”Il Giornale””

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