Pesaro: Le Comte Ory

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Di uno spettacolo già bello e fascinoso al suo apparire, nell’84 per il Festival Rossini di Pesaro, una ripresa che non è affatto una ripresa, ma un ripensamento e un approfondimento. Ottima idea. E anche con operazioni ben fatte di questo tipo che un Festival si qualifica e cresce e impone la sua autorità. Se allora Le Comte Ory fu alquanto soffocato dal clamore creato attorno alla mirabolante riapparizione del Viaggio a Reims stellare, sicché l’accostamento fu inteso per lo più come un incontro ravvicinato fra due opere tanto diverse quanto accomunate dallo scambio di parecchie pagine musicali, l’inserzione nel cartellone di quest’anno contava di per se stessa, forse anche al fine di ristabilire certe proporzioni. Le Comte Ory rappresenta nel teatro di Rossini qualcosa di analogo a ciò che Così fan tutte è in quello di Mozart: un’opera di seduzione finissima e di altissima perfezione formale, non a caso difficilmente collocabile in un genere prestabilito, e che occorre – anzi fa bene – ascoltare e riascoltare. Giacché popolare ancora non è, perfino a Pesaro il concorso di pubblico non è stato quello che l’occasione avrebbe meritato.

La scelta di cambiare interamente la compagnia musicale rispetto all’edizione del1’84 non suona bocciatura degli esclusi, ma nasce semmai dal tentativo di ampliare il serbatoio degli interpreti rossiniani, magari seguendo l’indirizzo che porta a una proprietà non solo vocale ma anche stilistica. Tentativo, più che opportuno, d’obbligo a Pesaro, e coronato da vivo successo in questa circostanza. E coerente, per esempio, affidare una compagnia di canto per lo più assai giovane a un direttore esperto e sicuro come Gabriele Ferro, già ferrato al cimento rossiniano, e a quello del Comte Ory in particolare. E siccome quando Ferro conosce una partitura a fondo ha molte frecce in serbo, il risultato s’impone con netta evidenza, ad onta di certe esuberanze – poco in tono con la sottigliezza della commedia – nella resa strumentale e d’insieme della London Sinfonietta Opera Orchestra.

E’ logico, di conseguenza, pensarla, quella compagnia, secondo criteri di omogeità e di equilibrio, impegnando dunque la tecnica ineccepibile e la misura stilistica di Mariella Devia nel ruolo della Contessa, la freschezza luminosa e la spigliatezza, anche scenica, di William Matteuzzi in quello del Conte; aggiungendo poi, nella parte del paggio Isolier, una voce squillante ma tutt’altro che priva di spessore caratterizzato come quella di Susanne Mentzer, a chiudere un terzetto di protagonisti che sa cantare ascoltandosi, e lievita sino alle altezze del terzetto sublime che conclude, sospendendone in realtà la fine, l’opera. A questa armoniosa rotondità di canto sfuggiva invece il Rambaud di Claudio Desderi, e almeno in parte a ragione: toccando a lui soprattutto i residui stilemi del teatro buffo all’italiana, sottolineati con prorompente vitalità nell’aria del secondo atto, molto applaudita.

La linea Pizzi, di rigore a Pesaro, costituiva l’elemento di continuità in questa produzione. Mantenendo la firma su regia, scene e costumi, Pier Luigi Pizzi ha rettificato alcuni eccessi della sua prima idea, peraltro abbastanza coerenti con l’impostazione di fondo, che vede nel Comte Ory un prodotto influenzato, anche se ambiguamente, dai Vaudevilles del teatro francese primo Ottocento. E cioè tutto permeato dai riferimenti al gusto e alla sensibilità dell’epoca in cui l’opera fu scritta. Pizzi non manca tuttavia di strizzare l’occhio alla tradizione della commedia-balletto, con ritmi serrati e vivaci pantomime, e di citare fra le righe alcuni ponnellismi di maniera. Anche in certe libertà che si prende, per esempio quella di rendere riconoscibile la femminilità di Isolier travestito, Pizzi riafferma il suo diritto di giuocare da uomo di teatro scaltrito e inventivo una partita audace,la cui posta in palio è la conquista dei significati più reconditi e misteriosi, insieme inattingibili e coinvolgenti, dell’opera. Già Rossini amava imbrogliare le carte, e massimamente nel Conte Ory. Pizzi vince, truccando anche lui qualche carta.

Musica Viva, n. 11 – anno X

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