Oltre venti minuti di applausi, fra un bis e l’altro (tre, tutti rossiniani, ovviamente), tripudio per Claudio Abbado: Pesaro ha incoronato il suo re, nel nome di Rossini e di Mozart. Terminate le recite del Viaggio a Reims (soltanto per l’ultima si è costituito il cast originario, con l’arrivo di Francisco Araiza e il pieno ristabilimento della Ricciarelli), Abbado si è congedato dal Rossini Opera Festival con un concerto mozartiano, il cui piatto forte era costituito dalla presenza della Missa Solemnis in do minore detta «Waisenhausmesse»: uno dei lavori più strabilianti ed enigmatici della produzione di Mozart.
A renderlo tale basterebbe già il fatto che Mozart la compose a soli dodici anni, per la solenne consacrazione della «Waisenhauskirche» (chiesa dell’Orfanotrofio) di Vienna. avvenuta il 7 dicembre 1768 alla presenza dell’imperatrice d’Austria e dei suoi figli. E ciò ha fatto sorgere accesi contrasti fra gli studiosi, prima che l’identificazione avvenisse in modo inequivocabile. Tanto più che l’insolito organico (solo oboi, trombe, tromboni e timpani in aggiunta agli archi) e la stessa originalità della composizione facevano di questa Messa quasi un corpo estraneo nella produzione del suo tempo, e perfino in quella sacra di un Mozart. Circostanze che a tutt’oggi ne rendono l’esecuzione cosa tanto rara quanto preziosa. A maggior ragione quando ad occuparsene sia un Abbado, come a Pesaro, forte di solisti stilisticamente impeccabili (Lella Cuberli, Lucia Valentini Terrani, Edoardo Gimenez e Samuel Ramey, appena reduci dalle prove rossiniane) e di un coro del valore di quello di Praga (vedovo di Veselka, ma non del suo prestigio: a dirigerlo è ora Lubomir Matl). Si capisce che cosa attragga tanto Abbado in quest’opera: la problematica definizione espressiva degli elementi compositivi intessuti in una forma solennemente liturgica. Abbado accentua l’energia ritmica della partitura nei passi più scopertamente drammatici soltanto allo scopo di far risaltare i momenti in cui l’inventiva mozartiana, quasi travalicando i significati del testo, decolla verso zone di impalpabile levità: ed è qui che Abbado cesella effetti strumentali di profonda suggestione. Il calcolo raffinatissimo della sua concertazione coglie nel segno proprio quelle intuizioni che più meravigliano e lasciano interdetti sul significato che assumono nel contesto in cui si vengono a trovare. Contesto che agli occhi di un dodicenne, qualunque fosse la mano che lo indirizzasse, non poteva sembrare affatto vincolante.
L’importanza dell’esecuzione della «Waisenhausmesse» metteva in secondo piano perfino l’eccellenza dell’altra parte del programma, comprendente l’aria «Mentre ti lascio, o figlia» (col basso Ramey), «Ah, perfido!» di Beethoven (con la Valentini) e la Sinfonia dalla «Posthorn Serenade» ancora di Mozart: e proprio questi due ultimi brani sopravviveranno nel concerto senese di domani sera di Abbado e della ritrovata «Chamber Orchestra of Europe».
Infine, una postilla. Nella sua recensione, Daniele Spini aveva perfettamente ragione a dubitare che la citazione della Marsigliese nel cerimoniale degli inni nazionali in coda al Viaggio a Reims fosse autentica. Non poteva essere e non era di Rossini. L’idea è di Abbado.
da “La Nazione”