Perugia: «Boris» inedito ma per pochi intimi

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Perugia – La prima versione originale del Boris Godunov di Musorgskij non era stata finora mai eseguita in Italia; e anche altrove, in Russia stessa, le sue apparizioni risultavano più uniche che rare. D’altronde, già in passato a volte promessa o annunciata, essa si era rivelata al dunque piuttosto come una delle tante contaminazioni possibili fra le diverse versioni – se ne contano una decina, tra revisioni e orchestrazioni – di questo capolavoro senza confronti del teatro musicale ottocentesco.

La Sagra Musicale Umbra, a chiusura di un’edizione in tono minore ma non priva di interesse, ha invece mantenuto la promessa di darci davvero il primo Boris; invitando a rappresentarlo al Morlacchi con i suoi propri mezzi, non eccelsi ma comunque accettabili, ritualmente e disperatamente russi, il Teatro Stanislavskij-Nemirovic-Dancenko di Mosca. E così si è potuto conoscere dal vivo la concezione originaria di Musorgskij e la sua prima realizzazione del 1868-69.

La quale da quella definitiva del 1871-72 – e per quanto questo termine possa valere nel nostro caso – si distingue assai di più che per la semplice mancanza dei due quadri dell’atto polacco (con la storia d’amore tra il falso Dimitrij e la principessa Marina, e l’aggiunta di un personaggio nuovo, il gesuita Rangoni) e di quello della foresta di Kromy, che conclude l’opera con la rivolta popolare e il pianto dell’Innocente sulle sventure della Russia. Giacché, come si è potuto finalmente ascoltare e capire a Perugia, le differenze sono molto più cospicue e importanti, e riguardano intimamente, capillarmente tutti gli aspetti del linguaggio e delle forme anche degli altri sette quadri. Al punto da far sembrare il primo e il secondo Boris due opere costituzionalmente diverse, questa in alternativa a quella, e non l’una la revisione e il perfezionamento dell’altra.

A cambiare non è soltanto la scelta drammaturgica di fondo. Nel primo caso al centro sta la figura dello zar, osservato nell’arco completo della sua parabola, dall’incoronazione alla morte, che qui chiude l’opera (una morte, quella originale di Musorgskij, niente affatto «operistica», come poi invece la sentì e rielaborò Rimskij-Korsakov). In questa figura si rispecchiano e prendono significato anche gli eventi esterni, attivati appunto in sua funzione; mentre nella seconda versione lo zar, se pur protagonista, è solo una delle voci a cui Musorgskij realisticamente e imparzialmente guarda per ritrarre, coralmente, personaggi, ambienti e situazioni in sè: da cui una drammaturgia assai più decentrata, sottratta a sviluppo tematico (l’accrescersi dell’ansia e del rimorso di Boris) e al divenire dialettico (la mera lotta per il potere) .

Se la visione del primo Boris appare in certa misura più tradizionale, audace, essenziale e affatto estranea alle correnti convenzioni teatrali europee è la sua realizzazione. Questa audacia, che provoca continui sussulti, confina talvolta con la rozzezza, in certi procedimenti armonici scabri e irrisolti, e si stempera in lunghe sequenze dominate da una insistita monotonia. Naturalmente si tratta di rozzezza e monotonia alla Musorgskij: ossia intuizioni, sovente geniali e irripetibili, di arcane possib’lità espressive. Questo Boris del 1869 era comunque nella sua vera veste originale un’opera perfettamente compiuta e individuale, di sé consapevole; tanto quanto quello della seconda versione del 1872 è un’altra opera, trasformata profondamente e quasi concepita da un punto di vista distinto: forse più alto; certamente più universale e, nel suo pessimismo, assoluto.

Senza mezzi speciali, ma con molta dedizione e competenza, oltre che con fedeltà all’impegno preso, il direttore Evgenij Kolobov e la regista Olga Ivanova hanno guidato orchestra, cori e compagnia di canto (nella quale ciò che contava era l’insieme) in una attendibilissima resa musicale e scenica dell’impegnativo primo Boris musorgskiano. Peccato che ad applaudirli ci fosse un pubblico non numeroso, ma attento e appassionato, e che la terza rete radiofonica abbia mancato la ripresa diretta. Si è così persa una bella occasione per fare di una rarità anche un fatto dì cultura che rimane, per molti.

da “”Il Giornale””

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