Pelleas al crepuscolo

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A Parigi una malinconica edizione del capolavoro di Debussy, grazie anche alla regia di Stein

Così Boulez  radiografa gli ultimi turbamenti di un’epoca

Parigi – La qualità di questo Pelléas et Mélisande di Debussy coprodotto dall’Opera nazionale gallese di Cardiff e dallo Châtelet, dove è giunto da ultimo per quattro esauritissime recite, sta tutta nel rispetto e nel buon senso con cui l’hanno affrontato il direttore Pierre Boulez e il regista Peter Stein. Boulez, anzitutto: che in quest’opera a lui assai cara ha smesso, almeno questa volta, gli abiti del rigido analista di partiture estranee alla sua sensibilità e perfino le granitiche convinzioni del tempo (dell’avanguardia) che fu. Si direbbe anzi che abbia perso molte certezze – fu bello almeno per lui sperare? – e sia giunto alla conclusione che il Pelléas non prefigura nulla, nulla annuncia della musica «nuova». ma semmai rappresenta il crepuscolo dei sogni e delle utopie. Boulez capace di intenerirsi? Non esageriamo. Ma quei personaggi e quelle situazioni evocate dalla musica, ora, egli sembra sentirli con passione piú umana e generosa, come un paesaggio incantato e fiabesco, cupo ed elegiaco, nel quale scorrono le stagioni della vita, e c’è spazio solo per ultime, fugaci illusioni: piani sonori radiografati con obbiettiva precisione, dinamiche che si perdono nelle pieghe della rarefazione e del silenzio, slanci trattenuti e compressi. Presto sarà il nulla. Con lucidità Boulez alza bandiera bianca; e mai resa fu piú opportuna e consona al capolavoro supremo che chiude un’epoca.

Peter Stein è un grande uomo di teatro, idealista e istintivo, sincero, inquieto. Grazie al cielo l’opera per lui non è una riserva di caccia ma un momento, raro, di verità. Non vuol dimostrare nulla, ancor meno «riscoprire». Non bara quando dice che i classici esigono la distanza e che se i registi avessero delle idee non farebbero i registi, ma i creatori. È conscio del suo privilegio e dei suoi compiti: portare il testo al pubblico, rappresentandolo. La sua è una regia fatta di pochi mezzi (scene di Karl-Ernst Herrmann) ma non dimessa, essenziale ma tutt’altro che fredda: col pregio di essere pensata, anzi sentita, tutta in funzione della musica. Si capisce che lavorandoci il Pelléas gli è entrato nell’anima, e ciò ha aumentato il suo rispetto, la sua discrezione. Ciò che gli preme individuare è la tragedia dell’innocenza, l’eterna difficoltà di vivere nella verità; ma anche la gioia e l’ebbrezza delle scoperte e delle emozioni, l’amaro delle ferite e delle sconfitte. Ciò che si trova nel libretto e nella partitura è realizzato con mezzi teatrali semplici, usati in modo magnifico; senso del tempo e dello spazio; gesti misurati, espressivi e chiarificatori; personaggi che si cercano e non si trovano, e cosi facendo si riconoscono; luci ed ombre che si contrastano e si annullano; brandelli di coscienza che si inabissano per sempre nell’ignoto, dove è inutile voler cercare spiegazioni. Non si potrebbe chiedere di piú. E alla fine si ha l’impressione che niente sia passato invano, e si vorrebbe ricominciare da capo, anche se il destino è già segnato.

Due mesi di prove a Cardiff, senza clamori e dichiarazioni pubbliche, con la compagnia sempre presente, concentrata e desiderosa di riflettere, imparare, migliorare. Di dove verranno Neill Archer, Donald Maxwell, Kenneth Cox, Alison Hagley, Penelope Walker? Non lo sappiamo, ma non li dimenticheremo facilmente. E l’amore che cresce, la consapevolezza che si fortifica nel corso delle recite portate al pubblico con l’orgoglio e l’umiltà delle antiche compagnie di giro. Senza arroganza, senza la pretesa di voler apparire, pur volando alti, i piú bravi. A queste condizioni l’opera può essere ancora un’esperienza da lasciarci, spettatori, un po’ di cuore.

da “”Il Giornale””

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