Ferrara – Aterforum porta molto bene i suoi 15 anni di vita, che per un festival di questo genere non sono pochi. In passato ha avuto qualche crisi di identità, come inevitabilmente capita a chi non cerchi il rumore e il consenso a tutti i costi e faccia invece scelte coraggiose e intelligenti, per di più senza farle pesare. E’ un festival appartato e silenzioso, che sfrutta i luoghi meravigliosi di cui dispone Ferrara per concerti che hanno sempre qualche ragione di essere e di far riflettere: per rivelarsi sovente, e in modo perfino inatteso, soprattutto emozionanti. La musica antica e quella contemporanea, per esempio, sono da sempre i punti fermi della manifestazione: viste però non come obblighi culturali bensì come occasioni per capire di più noi stessi e ciò che ci circonda. Per questo Aterforum non sceglie i percorsi ufficiali e alla moda, ma strade laterali, spesso le più lontane e infrequentate. Che così si avvicinano a noi e finiscono talvolta per appartenerci.
Dedicando quest’anno lo spazio contemporaneo a un compositore praticamente sconosciuto in Italia, Arvo Part, un estone di 55 anni, Aterforum ha messo a segno uno dei suoi colpi più belli. Lo ha quasi adottato con un atto d’amore, chiamandolo a Ferrara con i suoi collaboratori abituali, che formano una specie di gruppo selezionato e indivisibile del tutto votato alla causa del fare musica insieme, splendidamente: la London Symphonietta diretta da David Atherton, l’organista Christopher Bowers-Broasbent e l’Hilliard Ensemble, un complesso vocale di straordinaria duttilità.
Dai tre concerti ospitati nel Castello Estense e nella Chiesa di San Paolo si è potuto così avere un’immagine assai rappresentativa (e ancora più completa grazie alla superba mostra fotografica di Roberto Masotti a Palazzo Massari) dell’arte di Part. La quale si distingue per una poetica musicale i cui pregi maggiori – e fortemente atipici – sono da ricercare nella sensibilità, nella chiarezza, nella semplicità e nell’imediatezza. Part compone musica per pochi esecutori, con una tecnica apparentemente elementare, che in realtà è il risultato di una riduzione all’essenza dell’idea stessa di creazione. Una definizione data da lui stesso può essere indicativa: «Potrei paragonare la mia musica alla luce bianca: essa contiene tutti i colori, solo il prisma può dividerli e farli apparire. Questo prisma potrebbe essere l’anima di chi ascolta».
La mancanza di una cultura radicata nella tradizione occidentale (benché sia da tempo emigrato con orrore dal suo Paese e viva a Berlino Ovest, Part è un figlio solitario della sua terra, cioè un puro e uno sradicato), il rifiuto dello sperimentalismo e delle tecniche (ma si potrebbe dire meglio dello stato d’animo) delle avanguardie, un acuto e dolente senso religioso e spirituale, uniti a una delicatezza di sentimenti che quasi naturalmente si esprime attraverso i suoni, fanno di lui un caso raro nella musica del nostro tempo: un compositore ispirato da una musa umile, che ascolta le risonanze interiori e pudicamente le traduce in suoni. Non c’è sviluppo né contrasto in questa musica fatta di esili linee melodiche che lentamente variano e si trasformano senza perdere la loro collocazione nello spazio, lungamente dilatando il tempo, e che si integrano, secondo un metodo personalissimo, con accordi spezzati in una fissità quasi mistica. E’ difficile pensare che un linguaggio così scarno, e programmaticamente estraneo a ogni ridondanza, contraddistinto da una sostanziale semplicità, quasi primitivo nel suo richiamarsi a procedimenti monodici e polifonici del Medio Evo e del Rinascimento, possa creare una suggestione così intensa, e riesca ad apparire nel contempo così ricco di molteplici contenuti e respiri.
Delle quindici composizioni presentate a Ferrara, quasi tutte in prima esecuzione italiana, molto hanno impressionato quelle vocali; anche se nell’organo – per quanto spogliato delle sue caratteristiche opulenze sonore e reso trasparente e cristallino – Part sembri trovare lo strumento espressivo a lui più idoneo. Ma nelle pagine vocali, e in modo speciale nello Stabat Mater del 1985, per tre voci sostenute da un trio d’archi, lavoro che resterà tra i momenti più alti ed ispirati del nostro tempo, si concentra un fuoco di passione immobile, congelata nell’attimo stesso in cui vibra. Per questa musica del dolore e del riscatto intonata con accenti di vera pietà vale l’immagine di Wackenroder suggerita dal compositore stesso: «Una antica musica corale, che risuona come un eterno Miserere mei, Domine e le cui note, lente e profonde, si fanno avanti, nell’ombra della chiesa, come una schiera di pellergini, carichi di peccati, nel fondo di una valle…».
Che in afose serate di luglio, in un’atmosfera finalmente lontana dagli schiamazzi delle arene e degli eventi eccezionali, un numero considerevole di individui si sia raccolto per ascoltare questi echi e questi appelli, e alla fine vi abbia risposto con animo grato, è uno di quei misteri da cui è possibile dedurre che forse non è ancora tutto perduto per una musica a misura d’uomo.
Aterforum Festival a Ferrara (fino al 31 luglio).
da “”Il Giornale””