Parole sottintese, immagini celate

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Siamo abituati ad ascoltarle da sole, ma le musiche di scena vivono dentro una drammaturgia precisa

Chiunque abbia letto i classici del teatro rinascimentale e moderno, spagnolo, francese, inglese o tedesco, avrà notato quanti interventi musicali vi fossero previsti in origine dagli autori. E assai raro, nelle rappresentazioni teatrali di oggi, sia in Italia sia all’estero, veder rispettare queste prescrizioni, non si dice alla lettera, ma almeno a grandi linee. Chi può dire di aver mai assistito a una commedia di Shakespeare, di Calderón odi Molière, o ancor più al Faust di Goethe (soprattutto la seconda parte) in modo che fosse rispettata l’integrità degli inserti e delle parti musicali? Eppure esse non sono affatto secondarie, neppure in rapporto al contesto drammatico, a cui conferiscono, se non altro, varietà e distinzione: con precise, per quanto molteplici, funzioni. La più semplice di esse richiede la presenza, in stretta connessione con l’evolversi dell’azione scenica, di brani musicali quali danze, marce e canzoni, o anche solo di fanfare e rulli di tamburi per le entrate del sovrano, o per connotare una ambientazione militare; vengono così assolti compiti elementari di verosimiglianza e differenziazione, secondo codici stabiliti da una antica tradizione, ma anche di natura specificamente, intimamente drammaturgica. Ad esempio per introdurre una scena di passaggio o caratterizzare un momento statico, contemplativo, che preceda o segua un incisivo, brusco, precipitare del dramma.

A questa funzione per così dire primaria, naturalmente richiesta dal testo stesso ed essenziale per la sua resa (non è pensabile che si danzi o marci senza musica, o che si reciti ciò che è destinato al canto), se ne aggiungono altre di provenienza diversa, con scopi e nessi variabili rispetto al testo originale. E il caso delle musiche d’introduzione odi collegamento fra una scena e l’altra (anche al solo fine di riempire le pause durante i mutamenti di scena) o fra un atto e l’altro della rappresentazione: musiche che possono avere o non avere relazioni tematiche con essa, e seguire sviluppi più o meno ampi e indipendenti. Ouvertures e intermezzi appartengono a questo tipo. E hanno peso e significati differenti a seconda dei casi e delle epoche.

Ciò che va sotto il nome “”musica di scena”” è una realtà abbastanza complessa, la cui definizione dipende dal ruolo svolto dalla musica nella totalità del fatto teatrale a cui è destinata. La sua emancipazione da cornice, accessorio o ampliamento dell’evento scenico a genere artistico dotato di forte, quasi completa autonomia, avvenne nell’Ottocento romantico: ed è in fondo di lì che noi attingiamo il significato del termine nella sua pienezza e ampiezza. Quando pensiamo alla musica di scena, subito ci vengono in mente l’Egmont di Beethoven, il Sogno di una notte d’estate di Mendelssohn, il Manfred di Schumann o il Peer Gynt di Grieg; e solo in un secondo tempo li ricolleghiamo a Goethe, Shakespeare, Byron e Ibsen. Difatti questi brani sono passati stabilmente (anche se non frequentemente) nelle sale da concerto, ed è qui che noi li ascoltiamo, non intercalati ai drammi da cui furono ispirati.

Quando poi accade di vederli riuniti, si tratta quasi di rielaborazioni del testo teatrale e di adattamenti in funzione della musica: di modo che sono ribaltati i rapporti scenico-musicali. Carmelo Bene ce ne dette anni fa esempi non ignobili, sia pure alquanto discutibili e personali: ma, appunto, in concerto, non a teatro.

Viceversa, quando assistiamo a teatro alla rappresentazione di quei drammi, la musica è ridotta all’osso, se non viene omessa del tutto: un po’ di percussione e un paio di flauti a dar un’idea, proprio perché non è possibile farne a meno. E magari è ancora più comodo servirsi di una colonna sonora registrata (anche perché quando i nostri attori debbono provarsi a cantare, sono dolori per tutti). Una verifica istruttiva si ebbe l’anno scorso, quando il Maggio Musicale Fiorentino programmò nel giardino di Boboli The Fairy Queen (1692) di Purcell, dal Sogno di Shakespeare, che sta a metà strada, o meglio all’incrocio, fra musica di scena, masque (genere tipicamente inglese che riunisce azione, canto, danza e pantomima) e opera vera e propria. Ebbene, il pubblico che si aspettava di assistere a un’opera sciamò in massa, evidentemente deluso, all’intervallo; e poco mancava che chiedesse indietro il prezzo del biglietto. Quello interessato soprattutto al Sogno di Shakespeare (e a Ronconi, che ne era in questo caso l’interprete) giudicò probabilmente eccessiva la lunghezza degli interventi musicali, senza dubbio annoiandosene (vero è che né condizioni di ascolto né esecuzione erano particolarmente invitanti). Curioso fu poi il tira e molla nelle redazioni dei giornali, se affidare la recensione al critico musicale o a quello teatrale…

Segni di poca preparazione, di scarsa sensibilità? Niente affatto. Da quando è nata e si è sviluppata l’opera in musica, spettacolo nel quale l’azione teatrale si realizza attraverso la musica e il canto, la distinzione fra teatro di prosa (o in versi, comunque recitato) e teatro musicale, ossia interamente cantato, si è venuta radicalizzando sempre più e ha tracciato fra i due generi un solco netto, almeno sino alle soglie dell’Ottocento. Accadde così che la musica di scena, incidentale e di accompagnamento, fosse ricacciata in un limbo, ridotta in un ambito ristretto e subalterno: a interventi appunto limitati allo stretto necessario, di tipo decorativo o funzionale all’ambiente, senza una precisa relazione con il testo, come una bella cornice; o tutt’al più la si usava in occasione di ripiegamenti lirici realisticamente destinati al canto e all’improvvisazione estemporanea di qualche strumento. Trovando sfogo nell’opera, la musica non ebbe più bisogno di altri supporti per esprimersi: ora poteva fare da sé, orgogliosamente, dopo aver dipeso per secoli da altri generi.

Si obietterà che la collaborazione fra Lully e Molière continuò anche dopo l’affermazione del melodramma, e che lo stesso Purcell continuò sino alla morte a scrivere “”musiche di scena”” per i drammi di Shakespeare. Ma, morto Molière e finita l’era di Luigi XIV, la tragédielyrique, creata da Lully stesso, non tardò ad assorbire quei generi misti; e in Inghilterra, dopo Purcell, il predominio assunto dall’opera italiana frenò ogni ulteriore sviluppo della musica di scena. Sicché si perse perfino la tradizione di musicare regolarmente i songs inseriti nei drammi del periodo elisabettiano, Shakespeare in testa.

Non era stato così prima. L’unità inscindibile di musica, teatro e danza fu una delle caratteristiche principali della civiltà antica e di quella classica. Ovviamente non si può parlare qui di “”musiche di scena””, ma piuttosto di un connubio strettissimo fra gli elementi costitutivi del genere drammatico-rappresentativo (non a caso Wagner si richiamerà a quei principi per teorizzare il suo dramma musicale). Tuttavia, con l’evolversi della tragedia greca (e forse ancor più della commedia), lo sviluppo del dramma in senso individuale finì per determinare una nuova gerarchia e collocò la musica entro confini più limitati, come elemento di sfondo con funzioni di commento, se non proprio di accompagnamento (per creare un clima emotivo, o dipingere uno stato d’animo). E forse nasce proprio di qui il primo seme della distinzione fra testo teatrale e musica di scena.

Nel Medioevo, la condanna del teatro da parte della Chiesa sospese la questione dei rapporti fra musica e scena. Solo nel Quattrocento, con le sacre rappresentazioni da un lato e le nuove forme del teatro profano dall’altro, la musica tornerà a integrarsi nella sfera teatrale, per acquistare, con la pastorale e poi con gli intermedi fiorentini del Cinquecento, tratti meno accessori e caratteri più autonomi. Proprio gli intermedi, con il passaggio dallo stile polifonico a quello monodico e con l’emancipazione della musica dalla sottomissione a compiti non specificamente drammatici, segneranno una svolta verso la differenziazione fra musica teatrale da un lato e musica per il teatro di prosa dall’altro.

Si è già detto che una delle particolarità della musica di scena propriamente intesa è quella di presentarsi là dove l’azione lo richiede soprattutto nelle danze, nelle marce, nelle canzoni e quando nell’azione interviene l’elemento soprannaturale: principalmente se non esclusivamente in luoghi già indicati dal testo. Il carattere e l’ampiezza di questi interventi dipende dal compositore, ma può essere determinata in larga misura dall’autore. In questi momenti la musica è per così dire necessaria al procedere dell’azione ed è musica di scena nel senso che viene eseguita in scena dagli attori stessi o suonata dietro le quinte, spesso operando secondo un preciso codice di riferimenti le diverse scelte timbriche: i legni per le scene amorose e pastorali, i tamburi per quelle guerresche, strumenti a corda o a pizzico per il canto solistico accompagnato.

In Shakespeare, per esempio, queste caratteristiche sono fissate con estrema accuratezza, talvolta fin nell’organico. Con l’estendersi della pratica strumentale nel Settecento, via via che il repertorio teatrale si veniva consolidando, a quest’uso delle musiche di scena se ne aggiunse un altro per così dire di secondo grado, consistente nell’aggiunta di brani musicali non espressamente previsti, sotto forma di introduzioni, interludi e perfino di accompagnamenti strumentali in sottofondo durante la recitazione (è ciò che i tedeschi chiamano Melodram, ossia melologo: tecnica usata saltuariamente anche nell’opera, soprattutto nel Singspiel, che già alterna parti recitate e cantate; un esempio famoso è nella scena del carcere del Fidelio di Beethoven). È chiaro che in questi casi la realizzazione musicale non solo può arrivare ad esigere un’orchestra di grandi dimensioni, creando così una terza fonte sonora al di qua del palcoscenico, ma mirate anche a ottenere una corrispondenza fra i contenuti del dramma e quelli della musica (in altri termini la musica anticipa, sottolinea o riassume i temi fondamentali dell’azione, sicché ciò che accade sulla scena si rispecchia e si concentra passando dal dramma alla musica, e poi ritornando al dramma).

A incrementare questo ruolo della musica di scena come amplificatrice e chiarificatrice del dramma in prosa contribuirono nel Settecento la riscoperta dei “”classici”” antichi e moderni e la nuova fioritura teatrale dello “”Sturm und Drang””. Shakespeare da un lato (ma ora quello delle tragedie più che delle commedie), Schiller dall’altro, divennero modelli di una grandezza umana e spirituale che si rifletteva anche nelle aspirazioni dei musicisti e che, per realizzarsi, richiedeva alte mete e ideali sempre più nobili, per esprimere i quali il linguaggio musicale non era ancora maturo. Quasi nulla sopravvive delle musiche di scena composte nell’ultimo scorcio del Settecento per i drammi di questi autori: una passione fredda, velleitaria, incapace di infiammarsi al fuoco autentico della poesia e del dramma, mortifica tali tentativi anche al cospetto di una musica che vorrebbe apparire vibrante, e suona solo artificiosa. Neppure Mozart, nelle musiche composte per il dramma eroico Thamos, re d’Egitto di Gebler (1773), riesce convincente sotto il profilo del legame col testo teatrale: ma in questo caso esso non offriva stimoli consistenti.

La convinzione romantica che la musica fosse l’espressione più alta della spiritualità umana e che, nell’unità delle arti, essa raggiungesse il vertice di ogni creazione, non poteva non estendersi anche al campo del teatro parlato, prima di realizzarsi in quello propriamente musicale. Se era vero che là dove la parola e l’azione s’arrestano, manifestando la propria incapacità ad esprimere, sopravviene il linguaggio musicale per completare il senso del discorso, nel teatro di prosa la musica era costretta ad assolvere alla funzione intervenendo solo saltuariamente, ma senza rinunciare alle sue prerogative. In altri termini, per giustificare la propria autonomia e superiorità, h musica non poteva limitarsi a un impiego funzionale rispetto al testo teatrale, ma ne doveva per così dire spremere il succo fino all’ultima stilla. E sprigionare la fantasia oltre gli orizzonti della scena, con tutta la ricchezza dei suoi mezzi costruttivi evocativi e timbrici, già prepotentemente sviluppati.

Per i romantici il teatro moderno, con le sue passioni e i suoi conflitti, con le sue pose e le sue contese individuali e sociali, rappresentava una fonte a cui attingere quei nuovi contenuti ideali e quei gesti eroici che la musica sembrava predestinata ad accogliere e rafforzare sino a renderli universali. Ma rimaneva il problema della connessione fra testo e musica, là dove l’uno s’interrompe per lasciar spazio all’altra: dovendo comunque la musica obbedire a leggi sue proprie. Non è perciò un caso che la sintesi più compiuta avvenisse nelle Ouvertures, dove i personaggi e la trama dell’azione teatrale sono condensati e sviluppati in temi musicali secondo strutture rigorosamente autonome. Basta ascoltare l’Ouverture dell’Egmont (o del Coriolano) di Beethoven per avere un’idea musicalmente completa del clima spirituale e dei contrasti drammatici presenti`nella tragedia di Goethe (e del tanto minore Collin); ben poco viene aggiunto, nonostante l’intrinseca qualità, dai successivi brani strumentali e vocali apposti a commento dell’azione nei punti voluti dall’autore.

Non solo con Beethoven, ma anche con Mendelssohn, Schumann e Grieg (per riallacciarsi a esempi noti) la musica tende a tracciare un’orbita sua propria, che si sovrappone, e la trascende, a quella del testo e dell’azione a cui si riferisce e da cui trae ispirazione. Ciò è tanto più vero quanto maggiore per profondità è l’affinità poetica e spirituale fra testo e musica (vedi il caso di Grieg nel Peer Gynt) e totale l’identificazione (come nel Manfred di Schumann); e per quanto riguarda il capolavoro in assoluto del genere, il Sogno di una notte d’estate di Mendelssohn, l’invenzione e gli orizzonti sonori sono così fantastici da travolgere gli argini e rompere gli equilibri assegnati da Shakespeare alla partecipazione, pur così ampia e importante, della musica. Per quanto paradossale possa sembrare, il secolo che ci ha lasciato il numero più cospicuo di musiche di scena è quello che meno si adattava a rispettarne i ruoli e le funzioni originarie.

Si sarebbe tentati di affermare in via di principio che meno il testo teatrale è compiuto in se stesso, e profondo e complesso, tanto più ampi sono i margini per l’intervento della musica. Ma sarebbe un’affermazione pericolosa, perché presupporrebbe che la musica potesse “”migliorare”” ciò che è imperfetto. Busoni diceva che il dramma parlato non ha alcun bisogno di musica (se non come mero arredo di scena): il lavoro in sé, buono o cattivo che sia, è comprensibile e completo senza musica, tanto che ci si dimentica l’esistenza della musica, sul teatro e fuori di esso. Però aggiungeva anche che il Secondo Faust (e in alcuni punti anche il primo: la cantina di Auerbach a Lipsia e la Notte di Valpurga) era stato concepito da Goethe in modo “”operistico””, e che era anzi “”il”” modello dell’opera. Musicare il Faust, provvederlo cioè di musiche di scena all’altezza del poema, fu il sogno di tutti o quasi i musicisti dell’Ottocento. Molti però arretrarono di fronte al terribile compito e preferirono strade alternative: così Berlioz, che rielaborò le Huit scènes de Faust nella leggenda drammatica La damnation de Faust, e Schumann, le cui Scene dal Faust superano propriamente l’ambito della musica di scena. Anche qui si affaccia un paradosso: il capolavoro per eccellenza del teatro moderno, il classico per antonomasia del secolo romantico, nel quale la musica diventava parte integrante della totalità espressiva ed era indispensabile come la luce all’immagine visiva, non trovò veste sonora degna del suo rango. Molte musiche di scena sono scomparse dalla nostra conoscenza per la debolezza dei testi a cui erano destinate. Vale per tutti l’esempio di quelle composte da Schubert per la Rosamunde, principessa di Cipro di Helmina von Chézy. La mediocrità di questo dramma romantico non sta tanto nella qualità letteraria, quanto nell’assurdità dell’intreccio: assurdo perché senza capo né coda. Eppure Schubert compose per esso musiche di scena che si legano in un tratto unitario meravigliosamente compiuto, e sono nello stesso tempo impensabili fuori delle suggestioni di una rappresentazione teatrale. In questo caso, come in molti altri analoghi, la scappatoia della esecuzione in forma di concerto (rara, comunque) non rende giustizia alle intenzioni dell’autore e non risponde neppure al nostro legittimo desiderio di ascoltare della “”bella musica”” . La constatazione banale, perché tautologica, che le musiche di scena nascono per essere eseguite nella cornice del teatro e del testo a cui si accompagnano, per cui sono nate, non perde per questo la sua validità e offre lo spunto per qualche ulteriore, conclusiva considerazione.

Storicamente, le funzioni delle musiche di scena nel teatro di prosa si sono trasformate e hanno avuto vari gradi di incidenza: da semplice apparato di scena a commento, accompagnamento dell’azione, collegamento, sintesi del dramma. La prassi teatrale, col mutar delle epoche, ha inteso queste funzioni in modo diverso, ora ampliandole, ora restringendone gli ambiti e il peso specifico. Spesso gli autori si sono limitati a prescrivere o prevedere la presenza della musica, senza però precisare non si dice la partitura ma neppure il carattere e lo stile della musica stessa. Per lo più, venivano fissati solo alcuni criteri generali d’impiego nel corso dell’azione scenica, che venivano realizzati a seconda delle condizioni e dei mezzi di ogni singola rappresentazione. Ma neppure quando esisteva all’origine, la collaborazione fra autore e musicista era vincolante; inoltre, le musiche nate in concomitanza delle prime rappresentazioni di un lavoro teatrale non si tramandavano insieme con quello, non giungevano cioè ad essere parte integrante e fondamentale del testo. È significativo, per esempio, che nulla ci sia giunto delle musiche scritte dai compositori del tempo per le rappresentazioni shakespeariane dell’età elisabettiana: benché quei compositori si chiamassero Morley o Wilson. Perciò pretendere di rappresentare oggi quei drammi con le musiche, supposte “”originali””, della loro epoca, avrebbe un sapore archeologico, o tutt’al più un significato storico; e ciò vale anche per Calderón, per Molière, per il teatro rinascimentale e barocco, e perfino per quello romantico, come si è visto. Ogni epoca cerca di interpretare a suo modo il compito e la conformazione delle musiche di scena e tende ad attualizzarle, per adattarle all’idea complessiva della rappresentazione, che cambia e si rinnova. Per questo oggi si sfruttano regolarmente le possibilità offerte dalla registrazione su nastro e si utilizzano i rumori come sottofondo, prendendo a modello, anche quando si tratta di musiche originali, le colonne dei radiodrammi e della musica da film. Non sempre, così facendo, si risolve il problema dell’unità stilistica. Ma forse a tal punto non è neppure più possibile parlare, in senso tradizionale, di “”musica di scena””.

A sopravvivere stabilmente sono quei progetti nati da una collaborazione fra autore e compositore così intima da riuscire inscindibile: come per esempio accade nel Martyre de Saint-Sébastien di D’Annunzio e Debussy (1911), o in certi esperimenti di Brecht con Weill e Dessau. Ma anche in questi casi, e per ragioni del tutto opposte, è difficile stabilire dove finisca il testo e cominci la musica di scena. Come è peculiare del nostro secolo, i confini tendono a confondersi e i generi tradizionali a scomparire, per lasciar posto a schegge variamente ricomponibili. E a utopie sempre più incontrollate. La storia della musica di scena finisce qui. Per ricominciare da capo ogni volta che a teatro, o nella nostra fantasia di lettori, la parola recitata cede il posto alla musica e chiede il contatto di un suono, di una melodia, di un canto, o anche solo di un sospiro odi un grido che rompano l’azione di un dialogo o di un monologo. Anche il silenzio è musica di scena, che si compie nel mistero del teatro. Nella sua magia, tutto è possibile e verosimile, l’infinitesimamente grande e l’infinitesimamente piccolo: Beethoven, Schubert e un rullo di tamburo, un tocco d’arpa. Nell’epilogo dell’Amleto, là dove Shakespeare comanda il suono di una marcia funebre, Ingmar Bergman nella sua regia faceva un lungo silenzio sul corteo che sfilava muto: poi, all’improvviso, una scarica di mitraglia e una frenetica musica rock. L’effetto era sconvolgente, da far rabbrividire: era musica di scena anche quella? Non so perché, il pensiero mi è corso allora all’esempio più stupefacente ch’io conosca di una musica che irrompe sulla scena per illuminare d’un colpo il senso di tutto, lo squillo della tromba che da lontano, fuori scena, annuncia la liberazione di Florestano nel Fidelio

Musica Viva, n. 11 – anno XII

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