Parigi: Ciclo Beethoven

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Non tornerò a dirvi che è stata un’impresa eccezionale. Tutti o quasi sono caduti nell’iperbole di magnificare l’integrale dei Concerti e delle Sinfonie di Beethoven eseguiti a Parigi in una sola settimana da Claudio Abbado, Maurizio Pollini e i Wiener Philharmoniker alla stregua di un evento sportivo da primato mondiale, cui plaudire per il solo fatto che era stato realizzato. Non ripeterò neppure che è stato un trionfo. Non era forse scontato che lo fosse? Vorrei piuttosto cercare di fissare le impressioni di un ascoltatore che per una settimana si è trovato immerso nel mondo sonoro, nelle forme e nel linguaggio di Beethoven, sino ad esserne ossessionato e riceverne alla fine più dubbi e turbamenti che certezze o appagamenti; accompagnato in questa avventura da un’orchestra di imperturbabile, assoluta perfezione e da due musicisti impegnati non solo a costruire e comunicare l’esperienza di un arduo cammino interpretativo ma anche a identificare, attraverso di esso, la propria dimensione artistica e umana, etica e culturale insieme: sentendo, e facendoci sentire a ogni passo, che tutto sarebbe stato rimesso in discussione ad ogni nota, ad ogni accento, ad ogni entrata, e che pure solo alla fine sarebbe stato possibile stabilire se le proporzioni di Beethoven erano state raggiunte e definite nella loro smisurata portata. Quando il cerchio si sarebbe chiuso, se possibile, su quel trentennio di solitarie battaglie in cui Beethoven, con inflessibile ostinazione, cambiò il corso della storia della musica, per sempre, abbattendo modelli e convenzioni, per crearne di nuovi, di suoi, in ambito non solo sinfonico.

Si è cominciato però con l’ouverture del1′Egmont (1810), unica pagina aggiunta al ciclo delle Nove Sinfonie e dei Cinque Concerti per pianoforte e orchestra. Abbado sembrava averla scelta come biglietto da visita, per chiarire subito con un extra quale fosse la sua visione unitaria di Beethoven: drammatica e non epica, tesa e compatta nel suono, incalzante, sbalzata con vigore nelle singole parti, serrata nella scansione degli episodi, nitida nello studio delle relazioni formali. L’apoteosi della coda dell’Egmont mette in mostra la capacità dei Wiener di percorrere l’intero arco delle gradazioni dinamiche e agogiche senza perdere in brillantezza ed intensità espressiva: e si ha subito un saggio di quale sarà lo standard della resa esecutiva nella qualità e quantità dello spessore sonoro. Ed ecco Pollini, nel Quarto Concerto (1806). Il suo attacco apre prospettive sonore diverse, tanto è sommesso, interiorizzato, profondo. Abbado lo sollecita e sembra chiedere una maggiore decisione; in alcuni momenti del primo movimento si ha l’impressione di una qualche divergenza nel modo di intendere il fraseggio: più flessibile e rallentato in Pollini, più irruente e marcato in Abbado. La cadenza è però un’esplosione di forza drammatica che assorbe ed amplifica la tensione dell’orchestra, per preparare la lunga perorazione dell’Andante, dove Pollini indugia in una sorta di contemplazione del materiale sonoro (con un uso insistito, variegato, delle risonanze del pedale) che sembra voler sospendere all’infinito la continuazione del discorso logico. Prima riflessione: Pollini parte da un’idea sintetica e concentrata del linguaggio strutturale dell’insieme. Più che una divergenza di fondo, si tratta forse di una diversa fase di maturazione nell’approfondimento di Beethoven; o anche di punti di vista che si fronteggiano nella loro spiccata individualità, senza ostacolarsi né elidersi. Mi sorprendo deluso al termine dell’Eroica (1803-1804). Eppure l’esecuzione è stata perfettamente chiara, appropriata, sensibile, distesa, suonata magnificamente. Mi disturbano, sino a farne una mania durante l’ascolto, i raddoppi che Abbado ha aggiunto alla partitura, secondo un costume che oggi è di moda, dopo Karajan. Paradossalmente, l’opulenza sonora stride con l’eroismo, con l’intensità espressiva al limite dello squarcio ch’è propria di questa musica, nella quale Beethoven per la prima volta si confessa interamente nelle sue aspirazioni e nelle sue contraddizioni. I tre corni che diventano sei appaiono un’inutile sottolineatura di un gesto già in sé rivoluzionario, e non ci sarebbe bisogno di rimarcarlo. Abbado, tu che fosti l’apostolo del rigore e della fedeltà della lettura allo spirito del testo, dove sei tu? Ma la “”delusione”” nasce dal fatto che la sua lettera prescinde dalla convenzionalità del titanismo beethoveniano così come rifugge dai modelli storici del passato: ne assimila l’esempio ma non si dichiara disponibile al confronto sugli stessi terreni. Osa guardare oltre. Abbado forza talvolta la sonorità, è vero: ma lo fa per entrare nelle linee più riposte della partitura (di qui la sua attenzione alle parti interne, caparbia, instancabile) e verificare, con taglio drasticamente moderno, la loro costituzione in rapporto all’insieme. Di questo atteggiamento si ha la riprova nella Marcia Funebre: prosciugata di ogni residuo retorico e scandita con alacre speditezza, quasi temendo di enfatizzarne il lato autenticamente tragico. C’è un diaframma, che Abbado sottolinea come nessuno, fra questa sinfonia e la nostra epoca: non l’immediatezza ingenua, ma un filtro del pensiero e del sentimento ci mette nuovamente in contatto con essa, e la rende in questa luce significante. Così, dopo la seconda riflessione, la delusione si muta in consapevolezza di una duplice verità: i conti con Beethoven, anche quelli che credevamo di aver chiuso definitivamente e proficuamente, si riaprono continuamente ai nostri interrogativi; gli interpreti dell’intelligenza di Abbado, anche smentendo la propria immagine più consolidata, aprono porte che guardano avanti, pur quando l’orizzonte non è ancora interamente abbracciato e concluso.

La serata successiva propone l’incontro di due fasi distanti più che nel tempo nella prospettiva del lavoro compositivo beethoveniano: da un lato la Prima Sinfonia (1800) e il Secondo Concerto (1795), ch’è in realtà il primo composto da Beethoven, dall’altro la Quinta Sinfonia (1804-1808).

E stato, questo, il concerto rivelatore dei criteri interpretativi di Abbado e, in perfetta simbiosi con lui, di Pollini. Nella prima parte, la negazione decisa, espressa con evidente intento dimostrativo (grande orchestra, tempi stringati, colori asciutti, irruenza fonica, scatti impetuosi, asprezza di contrasti), del classicismo di Beethoven: non in nome di un problematico romanticismo ante litteram, storicamente identificato, bensì di una evoluzione del tutto interna alla carriera sinfonica di Beethoven e prefigurata già nelle opere giovanili. In altri termini, è come se Abbado leggesse il primo Beethoven alla luce di quello successivo: assottigliando ancor più l’analisi delle strutture musicali ed esasperandole sino a farle scoppiare, per individuare ciò che da esse si svilupperà. Di qui l’accostamento, emblematico, con la Quinta Sinfonia, che di quelle premesse – ammesso che se ne accetti il punto di partenza – è la conseguenza: un vertice assoluto di tensione drammatica ed etica, dove le novità linguistiche e formali finalmente venute alla luce si condensano in conflitti attorno a un unico assunto affermativo. Di essa Abbado ha dato un’interpretazione che, coincidendo perfettamente con la sua visione (ed esaltandone le specifiche virtù direttoriali come più non si potrebbe), ha avuto un esito sconvolgente, da lasciare annichiliti.

Un arco analogo, ma per così dire elevato di tono e di intensità, era quello percorso dal terzo programma (e già negli accostamenti delle opere all’interno del ciclo si notava l’acume dell’interprete): prima la Seconda (1800-1802) e il Terzo Concerto (1800), poi la Settima (1812).

Nel Terzo Pollini ha dato un esempio di pianismo terso e decantato, di luminosa trasparenza, indugiando ancora nel Largo nella interiorizzazione del suono: e raramente si è udito un dialogo così partecipe e toccante come quello creato da Abbado con gli strumenti dei Wiener. Si è avuta nuovamente l’impressione che quando interveniva Pollini il discorso mirasse ad allentarsi, a sfumarsi poeticamente, con una delicatezza che inteneriva. Qualcosa di analogo, con respiro magicamente trattenuto e profondamente calibrato, Abbado otteneva nell’Allegretto della Settima; prima di slanciarsi nella vorticosa danza del Finale, spinta al limite della concitazione e dell’ebbrezza sonora con disperata ricerca dell’emozione folgorante.

Era chiaro che Abbado non avrebbe cambiato impostazione neppure con la Quarta Sinfonia (1806), con il Primo Concerto (1798) e con l’Ottava (1812); in attesa di riprendere le fila del discorso principale con la Pastorale (1808) e con l’Imperatore (1809) e di concluderlo con la Nona (1822-1824). Eppure nella Quarta accadeva l’imprevisto: Abbado tornava all’organico originale nei fiati e alleggeriva considerevolmente gli archi. Con il risultato di esaltare una Sinfonia ingiustamente relegata nel gruppo delle seconde e di darne una interpretazione straordinaria, penetrante, lucidissima nei dettagli e ancor più luminosa nella veduta d’assieme. Ricondotta invece all’organico smisurato delle grandi Sinfonie, con otto contrabbassi ad appesantire un tessuto polifonico di rarefatta sostanza compositiva, l’Ottava è sembrata un mostro partorito da un incubo: tesa fino allo spasimo, sforzata negli accenti e nel fraseggio, accecata da clangori di ottoni, squassata da sciabolate (in sé stupefacenti) degli archi. Questa sinfonia evidentemente stride nell’idea di fondo che Abbado ha di Beethoven, e non solo da oggi: ma concordare con lui, qui, è perlomeno discutibile; anche a non voler condividere l’opinione che l’Ottava sia una sorta di parafrasi scherzosa dell’ormai svuotata forma classica, con buona dose di autoironia. Ed è questa leggera ironia che ad Abbado sembra, certo volutamente, mancare.

Lo si attendeva invece con un certo interesse al cimento della Pastorale, che non a caso è l’ultima Sinfonia da lui avvicinata in ordine di tempo, fra quelle di Beethoven, e di tutte la più problematica. Qui è sembrato di notare una sorta di titubanza dell’interprete nell’affrontare lo speciale, ineffabile descrittivismo della partitura: come se Abbado, per la prima e unica volta di fronte a Beethoven, dubitasse di aver chiarito a se stesso la strada da intraprendere e temesse di sbagliare, lasciandosi coinvolgere e abbandonandosi troppo, o viceversa troppo poco. Capisco la sua liberazione nel momento in cui attacca il temporale: l’unico momento della Pastorale in cui per così dire la musica è tutta scritta e la piena delle sensazioni e delle suggestioni si fa finalmente immagine viva, concreta e tangibile, sostituendo alle gradazioni e alle sfumature di puri stati d’animo, indecifrabili, la nuda forza del gesto. Io ho amato molto questa Pastorale, per l’inquietudine e a tratti lo sgomento che si incuneavano tra le pieghe della direzione di Abbado, rendendola meno compiuta e più umana. E sembrava di avvertire, nella partecipazione dei meravigliosi Filarmonici viennesi, una consapevolezza speciale, quasi che essi intuissero quanto Abbado in quel momento avesse bisogno della loro collaborazione, della loro esperienza e consuetudine con un’opera così particolare. E rispuntava così, più offerta che richiesta, la leggendaria, soave morbidezza degli archi, quel timbro dolcissimo e splendente che Abbado, lavorando nella sua veste stabile di direttore musicale, sa ormai mettere al servizio di una completa, rigogliosa compattezza e incisività di suono.

Ciò che è seguito alla Pastorale, ossia l’Imperatore e la Nona Sinfonia, ha posto il suggello al ciclo beethoveniano nel segno della grandezza monumentale e, da ultimo, del sublime senz’aggettivi. Ma ora non erano più gli interpreti – la loro sfida, le loro scelte, il loro risultati, per quanto grandi fossero – a contare: come se anch’essi fossero divenuti semplici strumenti di una presenza schiacciante e incontenibile, oscuramente minacciosa. Il volto sfatto e sofferente di Pollini, la maschera impenetrabile di Abbado che per scaricare la tensione ancora scuote il ciuffo come un ragazzino, tradivano forse l’emozione di quella presenza. Beethoven era lì, o il suo fantasma, a dire che niente era accaduto e che tutto sarebbe ricominciato da capo, come sempre. Bruciato in un attimo, l’avvenimento dell’anno: anche se lo ricorderemo a lungo, passato questo senso di svuotamento alla fine.

Musica Viva, n. 4 – anno XII

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