E’ giunto a Weimar il grandioso allestimento di Peter Stein
In Eschilo rivive la tragedia russa
Weimar – Grande, grandioso pezzo di teatro totale. Di quelli che, prima ancora che suscitare reazioni critiche, martellano in testa, inteneriscono il cuore, fanno correre brividi per la schiena, e, mettendola su un piano più materiale, qualche effetto lo lasciano anche sul fondoschiena, lungo sette ore di rappresentazione.
L’Orestiadedi Eschilo che Peter Stein ha allestito in russo, con attori russi, a Mosca nell’inverno scorso, e che ora è approdata a Weimar, nella città di Goethe e di Schiller, destando enorme impressione, è uno spettacolo folle e bruciante, assai diverso da quello che lo stesso Stein fece vent’anni or sono alla Schaubühne di Berlino. Se allora il rischio era calcolato, ora la sfida s’inerpica arditamente sui sentieri dell’ignoto, e procede con sussulti che si lasciano solo intuire, non solo per l’incomprensibilità della lingua e la disomogeneità del cast. È una messinscena furiosa, gridata, dove le parole sembrano gesti e i gesti, estremi, lancinanti e disperati, esorbitano dal teatro per afferrare alla gola una realtà sfuggente, tragica e sovrumana, terremotata e ricomposta in un ghigno beffardo.
Che la trilogia di Eschilo sia stata tradotta da Stein come una metafora della storia della Russia moderna è solo un aspetto di questa regia. Le scene di massa, nelle quali il coro diviene protagonista attivo della vicenda, sono manifestazioni di un dibattito sociale e politico nel quale ci si interroga su questioni vitali, con tutte le sfumature, dall’utopico al demagogico, di una lotta per il potere e la supremazia dominata da leggi barbariche, quasi primordiali. Nella trasposizione Stein vede un nesso immediato con il carattere eternamente sospeso dell’anima russa, una vicinanza assai più intima alla tragedia rispetto al corso deviante della dialettica, proprio della civiltà occidentale. Ma se la martoriata, desolata terra russa come luogo moderno della tragedia antica è una chiave di lettura possibile di questa interpretazione, l’abilità di Stein sta nell’allargare la portata della metafora fino al recupero dei temi universali sottesi al testo; come se, risucchiandola nel vortice, fosse la tragedia in quanto archetipo a inglobare la storia.
La cornice si rivela così una mera convenzione per riaffermare il valore dolorosamente emotivo, fondamentalmente inattuale del teatro nella sua sostanza poetica: irriducibile oltre l’ombra lieve della catarsi storicizzante. Assunto che Stein sembra voler agitare in questo spettacolo memorabile, fatto di voci e di scene allusive, con dolcezza e brutalità.
da “”La Voce””