“Onegin” senza languori

L’opera di Caikovskij a Bologna con un ottimo Delman sul podio e la discutibile regia di Sturua

Trionfo per Coni e gli intramontabili Ghiaurov e Freni


Bologna – Con la seconda opera della stagione, Evgenij Onegindi Ciaikovskij in lingua originale, il Comunale di Bologna ha prontamente riscattato il mezzo passo falso dell’inizio, confermandosi un teatro di qualità, attestato su posizioni di indubbio rilievo nello scenario italiano. Questa volta ha azzeccato tutto o quasi: dalla scelta del direttore (per di più in seconda battuta, dopo la defezione di Gelmetti) a quella della compagnia di canto, per la massima parte formata da artisti italiani. E se non fosse stato tradito da un regista sulla carta molto interessante, ma all’atto pratico piuttosto opaco e inconcludente, ci avrebbe dato una edizione del capolavoro di Ciaikovskij addirittura esemplare, da porre accanto a quella, rimasta vivida nella memoria, di un lontano Maggio fiorentino, con Rostropovic, Nucci, Gedda e la Visnevkaja in forma smagliante.

Ma per la parte musicale non eravamo affatto lontani da quei vertici. Anzi. A Bologna abbiamo ritrovato un grande direttore, Vladimir Delman, che proprio in questo teatro aveva già dato prova del suo enorme talento e insieme della sua discontinuità. Ma questa volta ne abbiamo ammirato tutti i pregi che, a contatto con una partitura, evidentemente molto amata e compresa in ogni sua piega, si son fatti riconoscere nelle loro vera ampiezza e originalità. E’ raro ascoltare una resa orchestrale così tesa e tersa, elegante e luminosa, attenta ai particolari e contemporaneamente capacedi seguire e caratterizzare l’arco del dramma senza un solo cedimento.

Quel ritegno, quel riserbo che son propri dello stile di Caikovskij nellìOnegin, e che tanto spesso capita di sentir sfogati im plateali languori e slanci esteriori, Delman li ha restituiti alla loro esatta dimensione di verità, di commedia e di tragedia: una tragedia per così dire trattenuta, ma rivissuta intensamente, quasi come una sofferenza dell’anima, che palpiti nell’intimo, sotto pelle e non osi dichiararsi se non nei momenti decisivi.

La direzione di Delman ha avuto fra l’altro il merito di trasformare l’orchestra e il coro, in generale assai buoni, e di assecondare in ogni istante i cantanti. Mirella Freni, assai festeggiata, ha approfondito ormai il personaggio di Tatiana fino alla perfezione. Non è e non potrà mai essere la fragile fanciulla russa di Puskin, ma è, sulla scena, l’interprete ideale dell’eroina di Ciaikovskij: e nessuna cantante russa potrà mai esibire la bellezza, la lucentezza e la plasticità della sua voce immacolata. Ma se per la Freni (e per Nicolai Ghiaurov, un’apparizione straordinaria nel breve ruolo di Gremin, a cui peraltro è destinata la pagina più commovente di tutta l’opera) non si trattava che di prendere atto di una classe intramontabile, c’era di che stupirsi nel seguire via via in crescendo l’autorevolezza e la finezza con cui Paolo Coni e Giuseppe Sabbatini davano corpo e voce splendida ai personaggi di Onegin e di Lenskij: prestazioni, le loro, nelle quali cultura, sensibilità e completo dominio dei mezzi tecnici ed espressivi mostravano il raggiungimento di una piena, convincente maturità. E dire che gli altri non sfiguravano al confronto nei loro ruoli di contorno (un plauso meritano Gloria Benditelli, Francesca Franci e Nucci Condò, oltre al Triquet di Oslavio Di Credito) significa riconoscere la cura con cui l’opera era stata pensata e preparata.

Non raggiungeva lo stesso livello la realizzazione scenica. Troppo oleografiche e convenzionali le scene di Alexi Meskhishivili, preoccupate soprattutto di confermarci che in Russia ci sono le betulle, paesaggi malinconici e albe brunose, nonché architetture neoclassiche nei palazzi principeschi; ciò non basta, perché nella musica di Ciaikovskij si manifesta un paesaggio dell’anima, e l’indole russa, con la sua riservatezza, sta tutta nel carattere dei personaggi. Ai quali il regista Robert Sturua non insegnava però come esprimerlo, né come comportarsi sulla scena. Sicché ognuno agiva d’istinto, seguendo un proprio percorso, anche bello, di idee e di emozioni. Intendiamoci, regie come queste non nuocciono all’opera, ma appunto non aiutano ad armonizzarla e a definirla in modo unitario. E allora a che serve avere un regista russo, anzi sovietico della Georgia, per costruire uno spettacolo dove tutto si riduce alle solite simmetrie e ai gesti di sempre? In altro contesto, anche i costumi assai accurati di Steve Almerighi avrebbero probabilmente fatto il giusto effetto.

E infine. Al pubblico è dispiaciuta molto la scelta di rinunciare alle «sovradidascalie», che il sovrintendente Fontana aveva utilmente introdotto anche a Bologna. Le ragioni di questa rinuncia ci sono ignote. Non crediamo affatto che questo nuovo corso, se di una scelta definitiva si tratta, sia da mettere in relazione con il cambio della sovrintendenza: Sergio Escobar è persona troppo seria, civile e preparata per cadere in tentazioni simili. Nel difficile compito che lo aspetta, si tratta di aggiungere qualcosa, non di togliere ciò che già si era conquistato.

 

«Evgenij Onegin» di Cialkovskij al Teatro Comunale di Bologna (repliche il 20, 23, 25, 29, 31 gennaio e il 3 febbraio)

da “”Il Giornale””

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