Oltre la nota

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La “Storia sociale della musica” di Henry Raynor

Di che si occupa, a che cosa serve una storia sociale della musica? Per Henry Raynor, autore di un voluminoso studio sull’argomento, suo compito è «colmare il vuoto esistente fra la tradizionale e indispensabile storia della musica, interessata alla trasformazione degli stili musicali, e la storia generale del mondo nel quale i compositori hanno agito». Questa storia, secondo lo studioso inglese, è stata sovente trascurata dai musicologi, che tendono invece ad anteporre questioni stilistiche o problemi di analisi formale allo riflessione sulla funzione sociale della musica o sui compiti sociali svolti dai compositori nelle diverse epoche; precludendosi così la comprensione dei nessi intercorrenti fra creatore e mondo circostante, e in particolare fra compositore e pubblico da un lato, mecenati ed esecutori dall’altro.

La polemica, se di polemica si tratta, non è certo nuova. Un tentativo in questo campo era già stato compiuto quarant’anni fa da un altro studioso inglese, George Dyson, e aveva trovato nella Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser (che in Italia apparve nel 1955) una impostazione pressoché normativa. L’idea che i prodotti artistici dipendano in maggiore o minore misura dall’ambiente nel quale sono nati, e che alla loro diffusione contribuiscano fattori economici, politici, in una parola sociali (ciò che in gergo si definiva un tempo il «contesto socio-culturale»), è ormai diventata di pubblico dominio non solo nel campo degli studi specialistici; sicché la polemica di Raynor non si fonda su motivi reali, neppure quando esalta il vantaggio del certo, del concreto, dell’effettuale nei confronti dell’opinabile e dell’astratto: ossia di un’interpretazione storico-critica basata sull’analisi delle opere, sulla ricostruzione degli stili e delle idee tecnico-compositive che contraddistinguono i singoli autori e i loro lavori artistici.

Ciò non toglie che lo studio di Raynor sia un contributo prezioso non in alternativa alla storia della musica tradizionale, ma a sua integrazione: e nessuno storico della musica serio lo vorrà negare. Il problema, piuttosto, è un altro: che peso dare, dopo averle poste sul tappeto, alle interconnessioni tra musica e società, e come chiarire il legame – diretto o indiretto – tra la pagina musicale e le realtà o circostanze esterne, concrete, in cui essa si è determinata? Su questo punto, il lavoro di Raynor mostra qualche debolezza, quando per esempio sopravvaluta l’importanza del contesto rispetto alle scelte individuali degli autori, di natura assai più critica e ambigua sia nel caso di Verdi (che per Raynor rimane musicista patriottico nel quadro sociale e politico del melodramma italiano dell’Ottocento) che in quello di Wagner (visto anche nell’arte come socialista rivoluzionario folgorato da Bakunin al tempo dell’insurrezione di Dresda del 1849). In altri termini, Raynor non si sottrae al rischio di trarre conclusioni automatiche da eventi storici che, per quanto reali, non si trasferiscono direttamente nella coscienza degli artisti fino a determinarne immediatamente e univocamente le scelte.

Questa Storia sociale della musica riunisce due lavori rispettivamente del 1972 e del 1976 dedicati ai due grandi periodi nei quali la posizione dei musicisti nella società si configura in una situazione comune, definibile in modo unitario. Il primo, che va dal Medioevo fino alla fine del Settecento, li presenta alle dipendenze di un’istituzione consolidata, ecclesiastica prima, cittadina poi, di corte da ultimo (ma le une e le altre si intrecciano sovente in modo stretto). Con Beethoven – la cui opera si pone al centro del periodo critico che dalla Rivoluzione francese giunge fino alla Restaurazione del 1815 – il compositore conquista una autonomia e una libertà personale che talvolta lo pongono in conflitto con il mondo circostante, i cui orizzonti divengono di conseguenza più ampi. All’interno di questo processo, Raynor cerca di cogliere, sulla base di un’estesa documentazione, le diverse funzioni avute dai musicisti nelle diverse collocazioni, seguendone le trasformazioni via via che fatti e circostanze nuove – dalla invenzione della stampa alla proliferazione di organizzazioni di musicisti dilettanti, fino alla nascita dei teatri e delle sale da concerto moderne – ne restringevano o allargavano il ruolo nei confronti sia dei committenti sia del pubblico sia di se stessi. E se nella condizione di dipendente egli poteva godere almeno del vantaggio di uno stretto contatto con un pubblico per il quale la musica era indispensabile, una volta divenuto libero professionista la sua funzione divenne sì più incerta e meno protetta, ma anche più decisa nell’affermare i valori-individuali e assoluti della creazione artistica in quanto tale.

Più di una imprecisione nelle quali l’autore cade sono corrette dal curatore dell’edizione italiana, Ettore Napoli. Il quale, però, come traduttore in collaborazione con Cristina Petri, cade a sua volta in marcate inesattezze soprattutto nella resa dei nomi e dei titoli stranieri. E si ha un sussulto nel leggere, a pagina 424, che Schubert aveva «un difettoso senso della puntualità» ed era «poco interessato all’esecuzione di lavori altrui» perché «nato in Boe-mia». Il rebus si chiarisce mezza paginetta dopo: Schubert non era ovviamente nato in Boemia, ma era – questo voleva dire Raynor – «costituzionalmente un boemo», ossia uno zingaro, un artista che faceva una vita libera e disordinata con pochi mezzi. Che questo poi non sia vero, e soprattutto non documentabile con quella certezza che l’autore rivendica alla sua indagine, è poco male: anche se a una visione oggettiva di una storia puramente sociale della musica arreca non piccolo danno.

 

Henry Raynor, “Storia sociale della musica”, a cura di Ettore Napoli, Il Saggiatore, pp. 693, lire 60.000

da “”Il Giornale””

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