Riuniti gli scritti musicali di Goethe
Si è portati istintivamente a diffidare delle antologie su singoli aspetti o temi dei grandi o anche massimi autori, estrapolati dall’ambito della loro produzione. Ciò che assume un senso nel quadro generale di un’opera o di una personalità corre il rischio della semplificazione se non del fraintendimento quando venga ridotto a una raccolta di massime, di impressioni, di pensieri, di passi isolati dall’insieme: soprattutto in quei casi che presuppongono invece già alla radice una globalità sommamente organica. Sui rapporti fra Goethe e la musica è stato scritto molto. Ciò non toglie che larghi spazi si offrano ancora all’interpretazione. È sufficiente per farsene un’idea precisa accostare uno dopo l’altro, diligentemente suddivisi per argomenti disposti in ordine cronologico – le esperienze di viaggio, l’epoca di Weimar, i rapporti con le altre arti, il Lied, il teatro musicale, i giudizi su musicisti e musiche, e via spigolando -, tutti i frammenti sparsi che abbiano qualche attinenza con la musica? Non è forviante porre sullo stesso piano i diari, le lettere, le conversazioni, gli abbozzi di opere e quei passi in cui la musica entra a far parte dell’invenzione poetica e letteraria, come materia della creazione , per esempio nel Wilhelm Meister? Soprattutto quei brani che a prima vista si presentano, così smembrati o concentrati, sotto forma di splendidi aforismi appaiono a una seconda lettura segnali intermittenti che rimandano a un’altra pienezza, segmenti di luce che illuminano senza diradare le ombre. E non sono quasi mai affermazioni definitive, da cui si possano trarre conseguenze probanti, ma spunti, suggestioni, pensieri occasionali: espressioni del momento di idee che poi vengono contraddette in altri luoghi o tempi lontani, partendo da punti di vista o collegamenti diversi.
Nell’introduzione, pregevole per la sua misura, il curatore di questa raccolta, Giovanni Insom, avanza l’ipotesi che il filo di Arianna si trovi nella «necessità dell’Erlebnis musicale», vale a dire in un «interesse per la musica nato dalla concretezza, dalla spontaneità e dall’immediatezza dell’essere». un comune denominatore davvero minimo per spiegare l’atteggiamento di Goethe nei confronti della musica. Giacché un’altra, cospicua parte del suo interesse andava invece non solo, come Insom aggiunge, a scandagliare «il processo di comprensione razionale delle cause e degli effetti della musica stessa» — fino a tracciarne le coordinate nella Teoria dei suoni rimasta incompiuta —, ma anche a stabilire i confini entro cui la musica dovesse mantenersi per esercitare la sua funzione. E questi confini non si allargarono mai fino ad abbracciare quei vasti orizzonti che intendevano la musica come un’arte autonoma, un universo in sé compiuto e autosufficiente, anzi la massima espressione artistica dei piú elevati valori dell’uomo e del mondo.
I musicisti si sono sempre chiesti con sgomento come mai Goethe rifiutasse gli slanci che alla sua stessa opera impressero coloro che l’interpretarono alla luce di un linguaggio profondamente nuovo, come Schubert o Berlioz; e perché i suoi modelli fossero prima Reichardt e poi Zelter, salvo riconoscere in Mozart l’incarnazione perfetta dell’assoluto alla musica riservato. E se in Beethoven intuì piú di ogni altro la portata eccezionale di una lotta drammaticamente giocata col destino, di Mendelsohn giovinetto lo colpì l’effervescenza e il genio puro, quasi vedesse nella musica un’arte le cui stagioni sono l’infanzia e la fanciullezza.
Non, però, l’età matura: nella quale l’immediatezza dei sentimenti soggettivi deve cedere alla ponderatezza della riflessione oggettiva. E da quel momento il linguaggio dei suoni diviene inadeguato a racchiudere la totalità del pensiero, o, per dirla con Insom, dell’«essere». Stranamente vengono ignorati qui quei passi del Werther e del Faust nei quali l’irruzione della musica provoca istantaneamente una regressione all’infanzia: una sorta di caduta nel sentimento puro, irrazionale e traumatica. Il peso di ciò che la musica reca con sé costituisce l’antitesi di ciò che Goethe perseguiva: la sublimazione del sentimento in estasi razionale, della suggestione incontrollata in poesia. Ogni cammino inverso, come per esempio avviene in Schubert, contraddiceva il suo fine, che era l’assoluta padronanza dei meccanismi del sentimento e della ragione in una sintesi idealmente compiuta di diverse verità. Pare quasi che Goethe prefiguri, al di là del caso umanissimo di Beethoven, il destino di tutta la musica moderna: oltre Mozart, oltre l’estremo limite in cui la fanciullezza entra nell’età matura, la musica è un’arte indomabile, votata all’infelicità.
Che poi Goethe tentasse nel corso della sua vita di definirne i fondamenti acustici e teorici, è un lato che appartiene alla sua tenace esigenza di vedere le cose con occhio realistico e di dominarle: significativamente la sua Musiklehre si arresta dove si affacciano i primi, ardui quesiti di natura psicologica. Bisogna sovente leggere dietro le righe per apprendere dove stia il vero filo d’Arianna dei rapporti fra Goethe e la musica: nel fissarne i limiti. E ciò che non dice è talvolta piú eloquente delle enunciazioni. D’altronde, anche in esse corre a ben guardare una consapevole continuità. A Charlotte von Stein, il 26 gennaio 1788, scriveva: «Dovete sempre pensare che questi pezzi sono fatti per essere suonati e cantati: per essere letti o rappresentati si sarebbero potuti e dovuti fare molto meglio». E a Zelter, il 16 dicembre 1829: «Non posso proprio fare a meno di dirti che l’approvazione che concedi al piacere musicale mentale mi fa molto bene; infatti mi devo accontentare di questo, ed è sempre confortante riconoscere che in tarda età la ragione intelligente o, se si vuole, la ragionevole intelligenza può legittimarsi come sostituto dei sensi. Grazie al tuo fortunato talento non ti troverai mai ad aver bisogno di questi seriosi surrogati>>. Zelter era un musicista al riparo, e proprio per questo Goethe lo stimava e lo umiliava.
Johann Wolfgang Goethe, «Sulla musica», a cura di Giovanni Insom, Studio Tesi, pp. 217, lire 30.000
da “”Il Giornale””