Tecnica rigorosa, natura romantica: l’interpretazione per Maria Tipo è ricerca continua di equilibrio tra metodo e istinto
Non mi è possibile pensare al personaggio Maria Tipo senza andare col ricordo agli anni del Conservatorio a Firenze: quando sapere che in quel luogo un po’ troppo chiuso e provinciale, quasi fuori dal mondo, insegnava una personalità come la Tipo equivaleva per me, mediocre studente di composizione, a sentire che l’esperienza della scuola aveva un contatto diretto, profondo con la realtà dell’arte e della musica, e con il suo mistero. L’artista che ascoltavamo dal loggione della Pergola e del Comunale era uno dei nostri; e in un certo senso testimoniava, rappresentava anche il nostro impegno e le nostre speranze nei confronti della musica. Quella della Tipo era una presenza che si avvertiva. Quando passava per i corridoi della scuola, istintivamente si faceva silenzio: col suo portamento eretto, il volto coperto da scuri occhiali da sole, rispondeva al nostro saluto con un minimo cenno del capo. Io la trovavo affascinante; ma a molti stava antipatica, perché sembrava troppo scostante e altezzosa, impenetrabile. Molto tempo dopo mi spiegò, sorridendo con maliziosa grazia femminile, che gli occhiali servivano solo a nascondere qualche ruga di stanchezza, o un trucco approssimativo.
I suoi allievi erano invidiati da tutti noi; anche se spesso li vedevamo uscire dalle lezioni della “”Signora””, come rispettosamente la chiamavano, disperati e con le lacrime agli occhi. Lo so bene perché allora facevo il filo a una delle sue allieve: e arrossisco nel ricordare che, col pretesto di consolarla, mi interessava invece soprattutto sapere che cosa mai la Signora avesse detto, per carpire qualche segreto sul suo modo di intendere il suono, il fraseggio, il pedale, la tecnica. Mi sembrava di partecipare a un mistero che non mi apparteneva.
Passava per essere un’insegnante dura e severa, ma i suoi allievi si sarebbero buttati nel fuoco per lei. Caso più unico che raro fra i suoi colleghi, dopo i saggi di classe o i concerti di fine anno veniva in pizzeria coi ragazzi e animava con la sua allegra vitalità enormi tavolate: ricordo benissimo una sua lezione esemplare, storica e metodologica, sulla pizza, e sul perché la si doveva mangiare con le mani. Aveva un senso dell’umorismo e dell’arguzia assolutamente sopraffino, che incantava. In questi casi veniva fuori tutt’intera la sua napoletanità, la sua schiettezza e il suo amore per le cose semplici: quasi una sorta di orgoglio popolare, contrastante in modo singolare con la classe della signora distinta e dell’artista avvezza a esibirsi nelle sale da concerto di tutto il mondo. E il calore di questo accento napoletano, emblema di una scuola di vita e di una civiltà artistica, reso dalla Tipo con inimitabili cadenze, filature, mezze voci, sospiri, motti di spirito, ciò che dovete immaginarvi leggendo l’intervista che seguirà.
Per me la pianista Maria Tipo è stata a lungo un enigma. Quando ascoltai per la prima volta le sue Goldberg, rimasi stupito che quell’interpretazione sembrasse uscire da una analisi strutturale della scuola di Adorno con in più la grazia, la magia, la poesia di una immacolata intuizione del sentimento. Com ‘era possibile quel miracolo da una natura così estroversa, immediata, esuberante e romantica, da un temperamento così solare? Ma dietro la facciata romantica la Tipo possiede innata la misura del classico: è una caparbietà che scioglie la sua inquietudine di fondo in un equilibrio di stile e di proporzioni.
Chiunque abbia ascoltato in disco o dal vivo i suoi autori prediletti (Bach, Scarlatti, Clementi, Mozart, Beethoven, e poi i romantici, che forse sono quelli che ancora più le sfuggono, paradossalmente), conosce il calore e la luce che sono promanati dal suono della Tipo. E qualcosa che le appartiene, e che fa parte della sua personalità di artista. Ma, incontrandola oggi di nuovo dopo molti anni in quella sorta di Walhalla che Piero Farulli ha costruito sulle colline di Fiesole, mi interessava soprattutto mettere a fuoco il personaggio Tipo sotto l’aspetto umano. Qualche sogno le è rimasto nel cassetto, e qualche ferita della vita le brucia dolorosamente ancora; ma niente è cambiato della sua freschezza e della sua disponibilità a farsi coinvolgere, a guardare avanti con spiccato senso realistico, e insieme con stupore. Neppure oggi che ci diamo del tu e che lei mi chiama, con amabile, ironica civetteria, “”professore “”.
Allora, Maria, parliamo di te oggi, della tua attività, di quel che fai e sei…
Mamma mia, tutto in una volta? Ma infondo non è che le cose siano cambiate molto, per me. Forse alcune scelte si sono radicalizzate, magari approfondite, comunque concentrate. Nel repertorio, per esempio, dove mi piace impegnarmi su programmi particolari. O nell’insegnamento, che è l’altra parte in cui si divide la mia attività. Qui alla scuola di musica di Fiesole, per Piero Farulli, tengo un corso di perfezionamento: sei allievi, due giornate di lavoro al mese; è poco, ma mi dà soddisfazione. Lo stesso faccio, con maggiore ampiezza, al Conservatorio di Ginevra, già da cinque anni. Ho allievi che vengono da ogni parte d’Europa, che si preparano per i concorsi, e si piazzano bene, magari li vincono pure. Prima ho insegnato diciotto anni in Conservatorio, a Bolzano e Firenze. C’è una differenza: ora posso scegliere gli allievi, in Conservatorio devi cercare di fare il meglio con quello che hai a disposizione, senza scegliere. Quando mi è capitato fra le mani un talento come Lucchesini, ho preferito consigliargli di non iscriversi in Conservatorio. Ha studiato con me privatamente. E’ triste dover dire che è stato meglio così. Il Conservatorio non alleva i talenti.
Intanto però hai anche fatto dischi importanti ed esteso la tua attività di pianista.
La possibilità di incidere per una casa discografica importante come la EMI ha significato avere una risonanza internazionale più vasta e immediata, far arrivare la mia voce dappertutto. Il pubblico che va ai concerti è sempre lo stesso, quello dei dischi è più ramificato e in un certo senso più consapevole: se compra un disco vuol dire che gli interessa ascoltarlo. Il disco serve a toccare posti nuovi, gente nuova: pensa alle persone che non possono uscire di casa, agli anziani, ai malati. Mi piace avere un colloquio con questo pubblico, persone che ascoltano la musica da sole. Ricreare la magia del concerto, far sentire la presenza dell’artista, riuscire ad affascinare. Si suona diversamente, e si comprende che l’interpretazione non è unica.
Tu incidi i tuoi dischi in studio?
Sì, anche se oggi al vecchio studio si preferiscono luoghi come chiese, sale da concerto, che hanno un’acustica più viva. I tempi di incisione sono ridotti, perché fare un disco oggi costa molto; ma questo abitua a concentrarsi, a ritrovare le condizioni di massimo raccoglimento, come e più che in un concerto.
Quale metodo segui?
Non mi piace spezzettare troppo la musica, anche perché con la tecnica digitale questo non è possibile. Di solito eseguo un intero pezzo o movimento, poi vado ad ascoltarlo e lo rifaccio. Non sempre la seconda esecuzione è la migliore. Coi tecnici e col direttore artistico discutiamo insieme la scelta del materiale; poi si cuce. Mi piace questo tipo di lavoro, perché non sono sola, è un lavoro di équipe molto differenziato ma che tende a uno stesso risultato. Mi piace anche occuparmi delle fotografie, dell’impaginazione, insomma sono curiosa di tutto, fino a che il prodotto non è finito.
La tua immagine è quella di una pianista generosa, istintiva, estroversa, diretta. Ma quando si ascoltano le tue esecuzioni di Bach (penso soprattutto alle Goldberg, il tuo cavallo di battaglia), di Scarlatti, di Mozart, del primo Beethoven (che non a caso sono anche le tue ultime produzioni discografiche “”nuova maniera””), questa immagine mi sembra che ti vada un po’stretta. Qui l’istinto non basta…
Mi fa piacere sentir dire questo. Credo che istinto voglia dire soprattutto intuito, cioè capacità di entrare dentro alle cose, ed è una qualità più profonda dell’intelligenza. Parlo in generale, è chiaro. Poi è importante il metodo, 1a continuità dello studio. Alle Goldberg ho lavorato per venticinque anni, a più riprese.
Ma come spieghi che tu, natura squisitamente romantica (o sbaglio?), sei diventata un ‘interprete eletta del repertorio classico?
Istintivamente pensavo che il repertorio classico, essendo quello a noi più lontano, andasse vivificato, ravvivato, e richiedesse una cura maggiore. Ma non è questo il punto fondamentale. Se uno tende costituzionalmente alla razionalità, il suo stesso innato rigore interpretativo lo lega, e diventa pericoloso. Io sono una natura romantica, ma diffido di questa mia natura, e cerco di disciplinarmi per riuscire ad essere rigorosa. Ma la natura c’è, è quella: si tratta di trovare il giusto equilibrio. Bisogna riuscire ad essere “”romantici””, cioè fantasiosi, esuberanti, anche nella musica dei classici. Però nello stesso tempo anche rigorosi. Io cerco soprattutto di curare i dettagli, il suono (che dà l’espressione) e il canto. La musica è canto, e noi dobbiamo cantare tutta la musica, anche quella di Bach. Ho sempre sentito il limite del pianoforte in quanto strumento a percussione, e cercato di renderlo vocale. Talvolta questa tendenza mi porta ad esagerare. Allora mi fermo, rifletto, e cerco di andare a fondo su questo punto.
Che pensi della tendenza filologica oggi preminente, del ritorno agli strumenti originali, della fedeltà alla prassi esecutiva del tempo?
Mi pare una curiosità giustificata. Dobbiamo sapere come suonavano gli strumenti dell’epoca. Sono esperimenti utili per l’ascolto. Ma la scrittura stessa di Bach, di Scarlatti, di Mozart, indica che il pianoforte può valorizzare ed esaltare al massimo questa musica. In Beethoven già il pianoforte moderno è poco, richiede quasi i timbri, gli spazi, le sonorità di un’intera orchestra. La polifonia di Bach trova nel pianoforte uno strumento ricchissimo di possibilità esecutive, grazie al legato, al pedale…
In genere il pubblico, e le Società di Concerto che fanno i programmi, apprezzano questi autori suonati sul pianoforte?
Molto più oggi di ieri. Trent’anni fa, quando suonavo le trascrizioni di Bach fatte da Busoni, c’era molta più resistenza, e la critica era generalmente ostile. C’era più snobismo, che io per formazione non ho avuto, più puzza sotto il naso. Ben venga il clavicembalo, non mi disturba. Ma il pianoforte è lo strumento più perfetto e più completo di colori, e io ho bisogno di colori per suonare, per cantare.
Torniamo alle Goldberg. Ti piacciono suonate da Gould, che le fa in modo diametralmente opposto a te?
Quando le sentii dal vivo in America trent’anni fa, avevo vent’anni, per me fu un’illuminazione. Intuii però che non potevo rifare lui. In generale, se hai un modello fra gli artisti o i pianisti, è sbagliato prefiggersi di raggiungerlo e di arrivare a quello. Lo devi perlomeno superare, se no è stato tutto inutile; perché c’è già quello. Certi miti (come Michelangeli, per esempio) sono deleteri per i giovani che aspirano all’emulazione. Ammesso e non concesso che riescano a raggiungerlo, a che serve un doppione? Anche perché quell’artista nel frattempo si evolve, cammina anche lui; e quando lo raggiungi, lui è già andato più avanti, continua a sfuggirti. Dunque la rincorsa è stata inutile. Non bisogna prefiggersi un limite, questo mai: ed è ciò che conta per fare sempre di più. Ma dicevi di Gould. Naturalmente questo genio mi ha ispirato. Era il primo che suonava Bach in maniera così lucente, così interessante e viva. Poi lo suonava tutto, e lo imponeva anche in concerto, era l’esecutore più grande, anche come numero di pezzi. Questo mi ha impressionato. Poi io ho fatto il mio Bach, quello che potevo fare io. E credo che ne sia venuta una cosa diversa. Guai se così non fosse stato.
In che cosa consiste questa diversità?
Nell’aspetto vocale, cantabile, per me. In Gould non è il lato principale. Ed è strano, perché lui mentre suonava cantava, lo senti anche in disco che canta, ma non canta con le dita. Mi sono sempre chiesta perché. Lui aveva qualche cosa dentro, eccome; ma il suo tipo di tecnica lo portava a forzare altri aspetti per riuscire ad esprimersi.
Che cosa consigli ai tuoi allievi, quale metodo usi?
Io posso dare solo dei mezzi, insegnare cose tecniche. Ma la cosa essenziale è iì talento, avere dentro qualche cosa. Sviluppare la propria personalità…
…già, si dice così…
Ma guarda che è vero. Deve esserci una personalità, altrimenti si rimane mediocri. Che poi molti possano arrivare a suonare decentemente il pianoforte, è un altro discorso. Ben vengano, anche questi. Ma senza personalità, rimangono lì. Io non posso farci nulla. Posso dare un’educazione, una cultura e una base; oppure consigli, precauzioni, indicazioni su come risolvere un problema: ecco, al massimo posso dare i mezzi tecnici per potersi esprimere. Poi ognuno segue le proprie caratteristiche individuali, il lato della personalità. E sempre stato così. Certo, un metodo ce l’ho anch’io: le mani sul pianoforte si devono muovere. E per far questo ci deve essere una scuola, alla base. Poi ribatto sui colori. I colori sul pianoforte sono infiniti, e dipendono dalla pressione delle dita: sfumature impercettibili, che però esistono. E anche se sai che un limite c’è, lo senti in te stesso che c’è, non lo devi mai dire all’allievo. Magari lui ha più fortuna, o sensibilità, di te, e trova la soluzione al tuo limite. Bisogna sempre insegnare ai ragazzi che si può fare di più. Il suono. Mille pressioni. Mille colori. Non ci credi? E allora proviamo a contarle. Così si forma l’orecchio. Fin da bambino. Prova a suonare piano, a capire come si fa, a sentire le sfumature. Quant’è bello se ci riesci! E poi il respiro, il fraseggio. A me è stato insegnato così. In certi momenti sentivo che tutta la mia vita dipendeva da questo mio dito e dalla sua pressione sul pianoforte. Terribile, ma anche stupendo. Perciò ai miei allievi dico: Fatevi basi forti, forti! Tecnica sana, solida. E poi leggete, ascoltate, uscite, frequentate gente, innamoratevi. Non state al pianoforte otto ore al giorno. Perché vuol dire che non avete talento, e allora è meglio cambiare mestiere. E dura insegnare, ma mi piace: mi piace il contatto coi giovani, e a volte penso che sia un’esperienza più utile che suonare.
Quali sono stati i tuoi maestri?
Ho cominciato a suonare a tre anni e mezzo con mia madre…
Posso scrivere “”mammà””?
Sì, mammà. Era stata allieva di Busoni. A lei devo tutto. Poi, a dodici anni, mammà mi ha mandato a Roma da Casella. Ho potuto studiare con lui solo due anni, perché poi è morto. Che grande pianista era Casella, la gente oggi non lo sa. Aveva doti di suono straordinarie, e questo soprattutto mi affascinava. E poi la sua chiarezza dell’espressione: la scorrevolezza, la flessibilità, e l’attenzione nel non far mai accavallare le voci. Ma Casella era anche un musicista completo, che spingeva a studiare tutta la musica: ci faceva suonare con lui gli spartiti d’opera, le trascrizioni, e dovevamo cantare mentre suonavamo. Casella era così. Dopo la sua morte, ho proseguito gli studi con Guido Agosti, e anche questa è stata un’esperienza importante perché mi ha aperto le porte del repertorio moderno, Debussy, Bartók, Prokofiev e tanti altri. Allora questi autori erano “”molto moderni””, come sai. E io li suonavo. Subito dopo, a sedici anni, ho vinto il concorso di Ginevra e di colpo sono entrata in carriera. Traumaticamente, in un certo senso.
Come governava mammà la tua educazione?
Con molta durezza e severità. Spesso mi diceva: figlia mia, “”devo”” fare così, perché hai un vero talento per il pianoforte. Era però anche molto dolce, e non mi ha mai fatto odiare lo strumento o lo studio. Suonavamo spesso anche insieme, a quattro mani.
Dicevi che l’entrata in carriera dopo Ginevra è stata un trauma.
Ho capito molto presto che la vita del pianista, il mestiere del pianista, erano cose diverse dal mondo incantato in cui avevo vissuto e praticato la musica fino a quel momento. Da bambina ero timida, e già allora non mi faceva piacere suonare nei salotti, anche se dovevo farlo, mentre gli altri bambini giocavano da un’altra parte. Ma il salto al concertismo fu enorme. Ho perfino odiato il mestiere, la professione…
Addirittura odiato?
Forse ho cominciato troppo presto. E poi pensa alle condizioni di allora. Una donna sola, che girava il mondo, doveva essere rigorosa, monacale. Io ho ricevuto un’educazione molto tradizionale, e da ragazza avevo conosciuto poca gente, avuto pochi contatti. Soprattutto pochi con la gente della mia età. Se andavo in un ambiente non musicale, avevo paura di essere snobbata. Esageravo allora comportandomi in una maniera molto semplice, alla mano. Pensavo continuamente: per carità, non mi sopporteranno, devo sforzarmi di essere come loro. Naturalmente era tutto falsato, e io ne soffrivo. Inoltre, io ero una ragazza che si evolveva a contatto col mondo, fuori dal chiuso di Napoli. Ben presto persi i contatti con i ragazzi della mia età; e per quanto mi sforzassi di andare verso di loro, sentivo che c’erano dei vuoti, dei grandi vuoti. E quindi ero sola, e continuavo a lavorare, lavorare, lavorare (lungo silenzio). Oggi la donna è molto più libera. Viaggia, s’incontra, parla. Se va a cena con uno, non è che automaticamente si pensi che ci va pure a letto. Ai tempi miei non era così. Ti screditava, se ti avessero visto a cena con un uomo; anche per la carriera. Era una cosa immorale. Io invece ero per natura estroversa, ansiosa di comunicare, ma non potevo, non dovevo farlo. Sì, la donna è stata proprio messa sotto assai.
Che fai, ti metti a fare la femminista?
Non sarà mai troppo! Ma lo sai per quanto tempo mi sono trovata ad essere l’unica donna in un aereo, c’erano solo uomini e mi guardavano con meraviglia. Da esserne ossessionata. Se solo alzavi lo sguardo, ti piombavano addosso e capivi che pensavano: è fatta, una donna che viaggia sola, figuriamoci, è una donna perduta. Beata l’ora in cui è venuta questa libertà per la donna! Di fronte a quello che eravamo noi! Lo so bene io, che ho vissuto sempre un po’ più avanti di tutti gli altri, anche se vivevo soprattutto di pianoforte.
Tu dai un motivo in più a quelli che sostengono che bisogna abolire i concorsi di pianoforte!
E invece sbagliano. Come può farsi conoscere un giovane se non attraverso i concorsi? Piuttosto, che siano buoni. Un bel concorso dipende dai concorrenti e dalla giuria, che deve essere all’altezza. Deve saper ascoltare, e per questo ci vuole anzitutto l’orecchio. Invece nelle giurie dei concorsi molti dormono: va bè, quelli non contano. Ma almeno quelli svegli debbono avere l’orecchio fine, e una sensibilità speciale. Invece oggi si giudica su altre basi, per me assurde. Conta più il “”forte”” del “”piano””, capisci quel che voglio dire? E poi ci sono le amicizie, le spinte, i clan, ma questi ci sono sempre stati e non sono sempre effetto di disonestà. Ognuno ha le sue idee, ma almeno aiutiamo quelli che hanno talento!
Torniamo a te, oggi. Perché hai incrementato la tua attività nella musica da camera?
Ho sempre fatto musica d’insieme, con mammà a quattro mani, poi intensamente con Alessandro Specchi a due pianoforti. Mi piace molto, è il massimo!
Ti dirò che diffido un po’ dei grandi solisti che scoprono a un certo punto che il massimo è altrove…
E invece no, è bello, anche più del risultato che si riesce a raggiungere.
Non sarà forse anche una questione di repertorio, ossia una ricerca di estendere le proprie conoscenze della musica in modo attivo?
Sì. Però la musica la scopri anche in altri modi, ascoltandola, suonandola per conto tuo e cantando la prima parte del violino mentre esegui quella del pianoforte. Ma quando fai musica insieme, ti sposi con un’altra idea, e vivi come in una perpetua attesa di riuscire a comunicare: e quest’attesa è anche più importante del risultato.
Tu hai suonato recentemente con Accardo, Ughi, e, prima che si sciogliesse, anche col Quartetto Amadeus. Quale esperienza ne hai ricavato?
Sono state esperienze buone, che mi hanno interessato e arricchito e che spero possano continuare. Il prolema è trovare il tempo per studiare assieme, qui sta la difficoltà. Ma a me piace suonare, confrontare le idee, innamorarsi di un dettaglio e lavorarci su, anche se poi magari in concerto non viene. Avevamo temperamenti diversi, ma ci sposavamo bene insieme. Poi i critici scrivono che restiamo solisti, naturalmente: mi dispiace, ma che ci posso fare? E poi magari non è neppure vero. Abbiamo fatto musica a un bel livello, è sempre stata una conoscenza. Che vogliamo di più?
Da solista, mi pare che il tuo repertorio in questi ultimi anni si sia venuto concentrando sempre di più su alcuni autori o pezzi. Per esempio suoni assai meno il Novecento.
E vero, ma anche perché me lo chiedono di meno. Forse interessa meno. Anche perché ormai si conosce, non è più una novità. Mentre in Mozart c’è ancora tanto da scoprire. Comunque suono abbastanza Debussy, e presto farò per la prima volta il Concerto di Ravel a Parigi. Anche il repertorio è fatto di momenti, di fasi.
Farai l’integrale di Beethoven in disco?
Me l’hanno chiesto, sarebbe la prima integrale di una donna! Ma io ho rifiutato.
Perché?
Ho già detto la mia voce in Beethoven, là dove mi sembrava congeniale. E inutile ripetermi, visto che in disco ci sono già integrali stupende. Sarebbe una sfida inutile. Piuttosto mi piacerebbe affrontare con una certa continuità Schubert, e continuare con Chopin e Schumann. Ma soprattutto mi attira Mozart. E quello che insistono a chiedermi e io sono ben lieta di assecondare queste proposte.
E così importante che siano gli altri a chiedertelo?
Mi piace fare quello che mi viene richiesto. E chiaro che in Mozart credo di poter aprire qualche spiraglio per interpretazioni future. Mi sento più forte lì. E il fatto che continuino a chiedermi di suonarlo e inciderlo rafforza questa convinzione. E poi, noi crediamo di essere qualcosa, di saperlo fare magari bene, di avere una certa immagine; ma quel che conta poi è anche come ci vedono gli altri.
Non credo che tu ti possa lamentare, da questo punto di vista.
Tu dici! Eppure la gente mi ritiene aggressiva, scomoda, e io lo sento, me lo rimproverano pure. Ho una personalità che dà noia. Ma allora, dico io, se uno è piatto dicono che è noioso, se invece ha un forte temperamento dà lo stesso noia… uno come dev’essere?
E debbono essere gli altri a deciderlo?
No, ma per me è importante essere accettata. Perché, per te no?
Già, per noi no?
Musica Viva, n. 3 – anno XII