Non l’amore ma la morte

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Pierre-Jean Jouve lavorò al suo libro sul Don Giovanni di Mozart per oltre trent’anni, folgorato a Salisburgo da un’esecuzione diretta da Bruno Walter con Ezio Pinza «vestito di seta bianca». Da allora in poi (si era nel 1935) per lui non esistette altro Don Giovanni. Agli incoraggiamenti e ai consigli di Bruno Walter perché ne scrivesse un’interpretazione rimase fedele; giacché essi stimolavano la sua propria visione dell’opera di Mozart, spingendolo a cercare un riflesso umano e letterario dei suoi interessi poetici. Minutamente, scena dopo scena, volle ripercorrerne i temi, i personaggi, le situazioni, i simboli, gli snodi drammatici e musicali: ora indugiando sui particolari per scorgerne una ragione o un enigma, ora invece prendendo slancio per alati commenti, per appassionate osservazioni miranti a spremere tutto il succo della poesia e del mistero. Da ultimo il Don Giovanni non gli sembrò più soltanto la più grande opera di Mozart ma «l’opera dell’universo»: a sua immagine e somiglianza.

Più che nei capitoli estremi e per così dire propositivi – «Grandezza attuale di Mozart» e «Conclusione» -, l’interesse del libro di Jouve sta proprio nel modo in cui l’opera viene descritta e interpretata nelle singole scene: con tensione ininterrotta e con ricchezza di spunti, di suggestioni, di intuizioni, in un linguaggio intensamente poetico e fantastico. Chi già conosce e ama Don Giovanni ritrova qui gli eterni interrogativi di Mozart; ma trova soprattutto le ossessioni di Jouve, le sue immagini tormentate e a volte oscure, la sua acuta sensibilità. In altri termini, non siamo di fronte a una guida all’opera, ma a un tentativo di dare risalto ed evidenza ai motivi che in quella fusione prodigiosa di gaiezza e cupezza s’intrecciano fino alle soglie dell’ineffabile.

Soprattutto sui personaggi e sulla loro psicologia si leggono cose illuminanti, per quanto sempre anche discutibili. Alcuni esempi. «Donna Anna è il grande personaggio affettivo dell’opera. Il dramma fondamentale di Don Giovanni si svolge in lei e su di lei. In lei vivono il dolore, la follia e l’impotenza. Testimone del peccato, essa diventerà, in seguito, testimone della punizione». Donna Elvira: « l’immagine della Fedeltà, nella quale la gelosia conduce la propria battaglia. Questa è la lotta di chi è cosciente della propria realtà, una realtà disprezzabile ma indelebile, una realtà il cui caro prezzo si paga in dolore vivo. E nessuno dei piaceri provati da Don Giovanni potrà mai sciogliere un legame simile». Zerlina è «un capriccio carico di freschezza, più che d’innocenza, che possiede la stessa spensierata libertà di Mozart e attraverserà il dramma come un fiore risparmiato dall’uragano». E se in lei si rispecchia «un tipo di donna assai frequente in Austria ai tempi di Mozart, ricorrente ancora ai nostri giorni», Masetto, il contadino, è «lo spirito, la tensione di un popolo, di un’epoca».

Più complessa, come è ovvio, risulta la raffigurazione di Don Giovanni e di Leporello, identificati in un’unica e comune realtà psichica quali «persone vicine che esercitano un potere l’una sull’altra all’interno di un determinato sistema di pensieri». Jouve sviluppa qui il concetto del «doppio», esposto come segue: «È come se l’elemento irresponsabile e innocente, volgare e materiale della personalità di Don Giovanni fosse impersonificato da Leporello, ed è come se Don Giovanni fosse una parte del servo Leporello, divenuto brillante provocatore, cosciente, però, del peccato. Don Giovanni alleviato da Leporello; Leporello stimolato da Don Giovanni».

Per Jouve il Don Giovanni è «un’opera di Morte»: o meglio, un’opera nella quale l’«esperienza della Morte, che è insieme l’esperienza della Colpa e della Redenzione», si realizza attraverso la punizione del Dissoluto. Ed è un’esperienza intrisa di lacrime e di sangue, percorsa dal dolore. «Il Don Giovanni – scrive Jouve – presenta con un sorriso l’universo del Dolore, spiega il nodo straordinario che lega insieme desiderio e colpa, mostra l’istinto alle prese con la ragione e la facoltà dell’uomo di cogliere, tramite la sua stessa miseria, un riflesso della libertà divina. L’idea del Don Giovanni offre altrettanto spazio alla rivolta e all’obbedienza, ma esige una scelta, e la posta in gioco è la morte».

Don Giovanni muore nel momento stesso in cui ha coscienza delle sue colpe: ossia, per Jouve, nella scena del cimitero. Ciò che segue, l’ultima Cena, è solo la conseguenza di quella folgorazione. Sapendo di dover morire e rifiutando di pentirsi, Don Giovanni compie la sua redenzione, e si avvicina a Dio pur non riconoscendolo. Ma «ciò che noi percepiamo durante lo svolgimento del Don Giovanni ha un carattere sovrannaturale più che religioso. Il castigo del male tramite la morte avviene in modo clamoroso, e la profondità dell’opera risiede tutta in quel mondo chiuso dell’uomo fatale e dell’uomo ideale, dove i due gladiatori si abbandonano a una lotta spietata. E tale profondità è spirituale». Al di là di questo dualismo, da ultimo, «la pura luce della morte regna sovrana e in essa, ne sono certo, Dio e Don Giovanni trovano una riconciliazione».

Jouve ne è dunque certo. Si può anche non esserlo altrettanto. Per lui, naturalmente, l’opera si conclude con la morte del bel seduttore, dell’impavido dannato; e ciò che segue – il Sestetto finale – è solo «un riflesso, estremamente impoverito, del cupo splendore di Don Giovanni: l'””antichissima canzone””, che condanna un miscredente all’oblio, è solo un ripiego, e non potrebbe essere altrimenti, dopo quel che è accaduto». Oggi sappiamo che questa visione «profondamente tragica», connaturata alla personalità di Jouve, è tanto falsa quanto quella del Mozart tutto grazia ed elegante superficialità, ornamento e brillantezza: il lato della convenzione comica che una tradizione idiota ma dura a morire identificava poi nella farsa grassoccia e scurrile, magari solo per dare maggior rilievo all’altro lato serio. Il segreto dell’equilibrio del Don Giovanni sta piuttosto in quell’indicazione leggera e trasparente che l’accompagna: «dramma giocoso». Né profondità né superficie. Ma qualcosa di più alto, e di più vero, che oggi forse si è perso del tutto. A queste condizioni, quasi ripartendo da capo, anche la conclusione di Jouve può essere accettata: «Un’esperienza complessa della Morte in un’arte illuminata dalla grazia: così, in una sola frase, potrei definire il Don Giovanni».

 

Pierre-Jean Jouve, «Il “”Don Giovanni”” di Mozart», trad. di Francesca Checchia, Coliseum, pp. 135, lire 28.000

da “”Il Giornale””

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