Niccolò Paganini – Concerto n. 1 in Re maggiore per violino e orchestra op. 6
Niccolò Paganini è l’ultimo rappresentante di una serie gloriosa di violinisti virtuosi che fecero grande la scuola strumentale italiana, prima che la passione per il melodramma trionfasse su ogni altra forma di cultura musicale. Con lui, però, si pongono le basi di un nuovo tipo di violinismo, nel quale la tecnica è messa al servizio dell’idea e ne costituisce la più piena realizzazione anche sotto il profilo espressivo. Creatore della figura moderna del concertista interprete e virtuoso, intimamente legata al nuovo clima romantico, Paganini fu per il violino ciò che Liszt sarebbe stato per il pianoforte: un fenomeno senza uguali nella vita musicale europea del primo Ottocento.
Per quanto le sue opere rimangano ancora oggi un punto di arrivo per ogni violinista, molti dei loro effetti non possono essere compresi se non riferiti alla eccezionale personalità del loro creatore. Paganini le compose anzitutto per se stesso, e ciò significa che la scrittura non intendeva esaurire tutte le possibilità esecutive; molte delle quali erano anzi affidate all’estro del momento, in una sorta di sfida e di improvvisazione spinta fino ai limiti estremi dell’invenzione. Ciò che contava, e che spiega l’enorme impressione destata da ogni sua esibizione, era la sorpresa che ogni volta si rinnovava di fronte alla presenza, sentita come magica se non diabolica, del creatore unico e inimitabile anche in veste di interprete. In questo senso, inseparabile dal momento storico in cui il fenomeno si manifestò, va inteso anche il termine trascendentale che sovente si accoppia a quello oggi screditato di virtuosismo: qualcosa che aspira continuamente a superarsi nella tensione verso l’infinito romantico, e di cui la straordinaria ricchezza di ardimenti tecnici, in sé mai insuperabili, rappresenta solo un mezzo.
Il favore di cui ha sempre goduto il Concerto n. 1 in Re maggiore per violino e orchestra è dovuto in primo luogo al fatto che qui la sproporzione fra intenzioni e realizzazioni è meno marcata. Paganini lo scrisse nel 1815-16, dunque nel pieno della sua carriera, ma non volle pubblicarlo probabilmente proprio per non fissare una versione assolutamente definitiva, quale in realtà era, di ciò che esso conteneva (apparve infatti postumo nel 1851 come op. 6). In origine la tonalità di questo Concerto era Mi bemolle, mentre la parte del violino era scritta in Re: il violino solista doveva essere accordato un semitono sopra per concordare con l’orchestra, che suonava in Mi bemolle. Nelle intenzioni di Paganini, quasi precursore dell’innalzamento del diapason, ciò avrebbe conferito allo strumento solista un suono più teso e brillante. Proprio come accade oggi con le orchestre americane.
Il Concerto si articola nei convenzionali tre movimenti, ma ognuno ha una struttura e per così dire un assunto diverso. Il primo, “”Allegro maestoso””, è basato sul contrasto, esposto subito nell’Introduzione orchestrale, fra un tema fieramente bellicoso e uno liricamente sentimentale: il modello sta nella contrapposizione fra i cosiddetti principi maschile e femminile del sonatismo beethoveniano del periodo di mezzo. Fattore unificante dei due temi, e dei loro sviluppi, è naturalmente il violino solista: il quale si appropria delle caratteristiche di entrambi i temi e le elabora fino alla fusione, cogliendone l’identità. E ciò permette sia lo slancio di acrobatiche esibizioni di bravura sia il ripiega-mento lirico in una melodiosa cantabilità.
Il secondo movimento, “”Adagio espressivo””, in Si minore, è concepito come una grande “”scena e aria”” operistica, in cui la parte del canto, invece che essere affidata alla voce, è sostenuta dal violino: nell’intenso patetismo che la sostanzia sembra che Paganini volesse rappresentare l’accorata preghiera di un prigioniero, o meglio di una prigioniera. E niente fa rimpiangere la mancanza della scena teatrale per definirne l’atmosfera.
Nel terzo movimento, “”Rondò, Allegro spiritoso””, il violino mostra finalmente l’altra faccia, quella demoniaca e sfrontata: impegnandosi a dare sfogo alle più iperboliche combinazioni di guizzanti colpi d’arco, di difficilissimi passaggi in armonici doppi, di scale e arpeggi d’ogni genere, fino ad arrivare a registri impervi e acutissimi. Maestro dell’effetto, Paganini riserva per la fine tutti i suoi più mirabolanti fuochi d’artificio, ma quasi con ironia, invitandoci a stare al gioco, a stupirci e divertirci finchè possiamo.
Carl Melles / Natalija Prishepenko,Orchestra del Teatro Verdi
Stagione sinfonica d’autunno 1991, Teatro Comunale Giuseppe Verdi di Trieste