Il grande regista svedese ha messo in scena a Stoccolma il “Peer Gynt” di Ibsen
Un allestimento di grande suggestione ambientato nel teatrino all’ultimo piano dell’edificio del celebre Dramaten davanti a una platea di solo centocinquanta spettatori – Tra gli interpreti il clownesco Borje Ahlstedt e una stupenda Bibi Andersson
Stoccolma – Ogni volta che Ingmar Bergman fa una nuova regia al Dramaten – l’unico posto in cui ormai lavori – la domanda è sempre la stessa: che cosa avrà da dire ancora, fino a che punto ripeterà se stesso e tutto quello che già sappiamo di lui? In fondo il Dramaten è un luogo di culto dove si viene per celebrarlo. E invece si scopre che Bergamn non si è fermato: si rinnova, si aggiorna, non smette di tormentarsi come ha sempre fatto ma non ha perso la voglia di creare, e di prendersi in giro.
Spettacolo indimenticabile e vertiginoso, questo Peer Gynt di Ibsen, quasi mozzafiato per le invenzioni e le trovate – tenere, crudeli, violente, dolcissime – di cui abbondano le quattro ore della rappresentazione. Complice, certo, il testo di Ibsen, il poema della grazia e della ricerca dell’identità, della fantasia e del sogno, dell’illusione e della salvezza. È dunque adatto come pochi a sollecitare l’arte e l’estro di Bergman nei dominii del teatro.
Così non mancano le sorprese. Anzitutto il luogo prescelto per lo spettacolo. Non la sala grande del Dramaten, ma un teatrino in miniatura situato all’ultimo piano dell’edificio, costituito di un palcoscenico e di una stretta gradinata che sale verso l’alto: tutta foderata di nero e capace di soli 153 posti. Si dice che qui Bergman abbia costruito il suo regno, attrezzato di tutti i più moderni e sofisticati requisiti tecnici. Lo si capisce dal modo in cui ogni centimetro viene utilizzato nello spettacolo, rivelando nascondigli, trabocchetti e trucchi scenici ancor più sorprendenti perché sembrano nascere dal nulla. Ed è come se ogni volta si scoprisse, quasi stropicciandosi gli occhi, che cosa sia e possa diventare il teatro nelle mani di un prestigiatore geniale.
L’espediente abusato di far muovere gli attori anche tra il pubblico per creare uno spazio immaginario illimitato è visto da Bergman con ironia; ma serve anche a fissare le diverse identità di Peer coinvolgendo o distanziando gli spettatori nel corso delle sue avventure. Abolite le convenzioni naturalistiche, è un viaggio nella magia del teatro quello che Bergman propone: del teatro come rivelazione e giustificazione della vita. Per far ciò non ha bisogno di molti arredi. Bastano una pedana che, come in un teatro di marionette, è mossa dall’alto da quattro corde che le consentono a ogni quadro di cambiar posizione, e pochi oggetti: tavoli, sedie, armadi, un letto. Di qui la scena si prolunga nella sala, abbracciandone l’intero quadrilatero come in una cassa di risonanza musicale. In alto, e ai lati, uscite ed entrate ritmano le mirabolanti vicende di Peer, scandite dal ticchettio di una pendola, dal sibilare del vento o dall’ansimare di un respiro. Non c’è la musica di Grieg, ma quella inquietante di Martinu: di sfondo, senza le canzoni. I diversi luoghi dell’azione sono illusoriamente ricreati dai movimenti della pedana che continuamente si trasforma da capanna in antro dei trolli, da tenda nel deserto in nave: fino a scomparire sollevata in alto nell’epilogo, il ritorno a casa di Peer. Ma è soprattutto la luce a definire le atmosfere: il rosso squillante della festa paesana e dell’ebbrezza, il verde marcio dei monti di Dovre e dell’incubo dei trolli, il bianco accecante del manicomio al Cairo, il nero della tempesta, il tenero azzurro della quiete sfuggente. Su di essa agiscono le memorie dell’infanzia di Bergman: la lanterna magica, le ombre cinesi, le proiezioni cinematografiche.
La storia di Peer Gynt è il cammino della vita, della ricerca di se stessi e di un contatto col mondo reale. Ma Bergman non sembra volerlo caricare troppo di significati autobiografici. Il protagonista da lui scelto, Borje Ahlstedt, è come figura il suo esatto contrario: grassoccio e tozzo, estroverso e frenetico come un piccolo clown.Alla conquista del mondo se ne va armato di una bombetta in testa, metafora dell’attore, cambiando continuamente abiti che sempre più contrastano con la sua vera identità, come Faust. Ma la sua non è la strada della conoscenza bensì quella della lontananza dei sentimenti, e della loro graduale riscoperta: gli ambienti con cui viene in contatto svelano una serie molteplice e progressiva, quasi brutale, di allusioni simboliche: l’allucinazione e l’ossessione erotica, il disfacimento fisico, l’incubo della pazzia e del suicidio. Ma nella solitudine l’accento torna sempre a cadere, oltre che su Solvejg, sempre presente e mai raggiunta, sul rapporto con la madre, che è la sublime Bibi Andersson. A lei Peer racconta le sue visioni mentre giocano a letto, come se raccontasse delle fiabe. Solo quando la madre sta per morire, Peer comprende che il mondo dei sogni non basta ad avere ragione della realtà. Alla fine sarà Solvejg (la purissima Lena Andre) ad accoglierlo e a cullarlo nel sonno della morte; prima ancora che il fonditore di bottoni (il mitico Jan-Olof Strandberg, ricorrente incarnazione della morte in Bergman) annunci con colpi secchi che la sua ora sta per venire. Cieca, invecchiata, vestita con lo scialle della madre, Solvejg è per Bergman l’ambigua figura della donna ideale e insieme la trasfigurazione della madre.
Nonostante la malinconia del congedo, da tempo non si ricordava un Bergman così vitale e fantasioso, così suggestivo e poetico. Da mezzo per scaricare le sue ossessioni e i suoi fantasmi il teatro sembra ora diventato per lui un’ancora di salvezza per recuperare il passato e guardare con serenità a quell’ultimo crocicchio che attende. Ma in spettacoli come questi, anche la morte non fa più paura.
«Peer Gynt» di Ibsen al Dramaten di Stoccolma, repliche fino al 7 giugno
da “”Il Giornale””