“”Di Bayreuth detesto tutto. Del teatro mi piacciono solo le sedie, perchè sono scomode. Per tutti, indifferentemente, democraticamente”” (Heiner Müller).
Eccoci qui, a Bayreuth, per il nuovo Tristano messo in scena da Heiner Müller. Il più famigerato scrittore della ex-Ddr, detestabile scomodo e democratico lui stesso come le seggiole del Festspielhaus, chiamato da quella vecchia volpe di Wolfgang Wagner a riaccendere il fuoco ormai languente del tempio del nonno. Con l’opera più incendiaria che il teatro conosca, da che giorno è notte, da che amore è morte. Sara scandalo? Certo, programmaticamente. Guai se non lo fosse. Dirà poi Müller, candido come solo un vero perfido sa essere: “”Durante le prove ho temuto che la mia regia potesse essere un successo. Nessuno protestava, tutti erano contenti. Allora ho pensato che era meglio andarmene. Che ci stavo a fare io lì? Mi hanno trattenuto a stento. Solo alla prima, quando ho sentito alla fine tutti quei fischi e quei bah, mi sono rinfrancato, e ho capito che il mio lavoro funzionava, come 1’avevo concepito””.
0 lettore, non credere che stia scherzando, o che meni il can per 1’aia. Qui si raccontano
fatti, non parole. Ma i fatti talvolta sono intessuti di filosofia della vitae dell’arte, e
il teatro non fatica a contenerle. E’ anzi l’unico luogo in cui un pensiero diviene atto concreto, uno stato d’animo verità. Non sempre. Solo nei momenti di riuscita assoluta, gli unici che valga la pena di vivere. 0 di assoluta inadeguatezza, che ci scuotono e ci fanno star male. Anche di lì capiamo noi stessi. Senza distinzioni. Democraticamente.
Wagner disse una volta che una buona esecuzione del Tristano avrebbe portato il pubblico alla follia. In altri termini, che sarebbe stata fisicamente e psichicamente intollerabile. E aggiunse che lui stesso sarebbe probabilmente impazzito se non si fosse difeso, componendolo, con la routine. E’ un modo di pensare estremistico ma profondo, intriso di filosofia del paradosso, intimamente tedesco, che a noi latini sfugge (vedi in proposito 1’ironia di Hans Sachs). Esso presuppone – e Wagner lo presupponeva – che si ascolti dopera non come un componimento d’arte ma come una concezione del mondo: nel caso del Tristano una sola esecuzione, buona o cattiva che sia, dovrebbe bastare per farci impazzire definitivamente. Ma siccome ciò non accade mai, o quasi mai, significa che qualcuno ha barato. Probabilmente tutti, fin dal principio.
Müller, vuoi per coerenza con la sua poetica di drammaturgo ispido e duro, vuoi per deliberata scommessa di debuttante nella regia d’opera, va alla ricerca di dove stia 1’inganno. Per lui l’arte è inganno, perchè se non vi fosse inganno (nei rapporti fra gli uomini, nella società, nella politica, dappertutto) Pane non esisterebbe. Il compito del1’arte non è quello di redimere la vita, bensì di smascherarla nelle sue contraddizioni, senza trasfigurazione: e per fare questo, secondo Müller, occorre porsi in oggettiva, attiva contemplazione, per provocare una reazione quasi al di sopra delle parti. I1 pubblico in quanto tale, con le sue abitudini consolidate, andrebbe “”seppellito””: con il corpo e con 1’anima.
Questa visione pessimistica, in cui l’ideologia del progresso dimostratasi amaramente fallimentare si fa beffe anche del suo opposto, il fervore Santo della religione dell’arte, Müller 1’applica al Tristano in modo crudele, senza apparente emozione: un’unica nota dominante, pedale d’atmosfera, fa da sfondo ambientale alla rappresentazione: il gelo. Immersi nel buio, i personaggi rivivono la loro vicenda quasi fosse una sequenza di allucinazioni, una teoria ininterrotta di ferite inferte reciprocamente, da cui il sangue non sgorga perche il gelo l’ha gia raggrumato. Ombre di se stessi, senza volto e senza spessore, essi sono irrigiditi in una scena che nel primo atto e una scatola vuota che rifrange nella pallida luce fantomatiche apparizioni, nel secondo un labirinto o cimitero di corazze abbandonate e allineate, nel terzo uno squallido cortile con le macerie di una casa
sventrata da un bombardamento: immagini allusive di una guerra persa prima ancora di essere combattuta, come tutte le guerre. La staticita della recitazione non è di tipo rituale, ieratico, bensì larvale, di larve chiuse nel loro bozzolo: esse sanno che di lì non usciranno mai, perche non alla vita anelano, ma alla morte. E la morte è il regno delle ombre. Il terrore di vivere e di amare è il loro modo di esorcizzare la paura stessa della morte, cui sanno di appartenere. Tristan e Isolde non si amano realmente, nè sono vittime di un destino che il filtro s’incarichi di realizzare, imprigionandoli: vanno semplicemente incontro alla morte ch’e gia in loro, chiedendosi aiuto 1’un 1’altra. Guai se s’incontrassero, guai se s’amassero veramente: davanti a loro si aprirebbe un baratro più spaventoso della morte stessa, l’insensatezza della vita, l’incubo del quotidiano.
Pur esacerbando, nella sua interpretazione, la dimensione metafisica dell’opera (e Opus Metaphysicum sono già le scene rosse, blue grige astratte di Erich Wonder), Müller coglie alcuni momenti di grande teatro. Per esempio il primo incontro di Tristan e Isolde nella nicchia-loculo avanzata sul proscenio: non hanno neppure il coraggio di guardarsi, di voltarsi, forse memori della sorte di Orfeo ed Euridice, ben sapendo che una forza interiore li obbligherà ad affrontarsi, per restare poi come impietriti dalla loro stessa ineluttabile decisione. Nel secondo atto il duetto d’amore non segue la curva lineare del1’ebbrezza, i due vagano nel labirinto di corazze come anime in pena, senza trovarsi, senza toccarsi: solo nell’attimo dell’irruzione del re e del suo seguito le mani si congiungono per subito respingersi, e durante il monologo del re si compie a ritroso il cammino dell’impossibile vicinanza. Altro che coito interrotto: qui l’orgasmo non ha neppure incominciato, nè mai comincerà. Nel terzo atto gli interventi del pastore, raffigurato come un mendicante cieco, scandiscono il delirio di Tristan nel segno della depressione, invano contraddetti dal vitalismo velleitario di Kurwenald: ma la chiarezza della situazione è oggettivamente palesata da chi non vede con gli occhi, eppure con la sua visionarietà sa guardare oltre 1’apparenza. All’arrivo di Isolde il pastore esce di scena: ora che tutto si sta per compiere, la sua presenza ammonitrice non è più necessaria.
Archetipi mitici – Tiresia, Edipo, Brangane come Cassandra – si fondono in questo spettacolo di spettrale oscurità con velati riferimenti ai culti orientali, gia nelle maschere e nei costumi di Yohji Yamamoto. I1 nirvana come totale annientamento non solo del desiderio ma anche della volontà vi appare non tanto come suprema salvezza quanto come condizione originaria dell’essere, quasi esistenzialistica necessità dell’individuo sottratto a ogni relazione sociale. Pur saltando molti passaggi intermedi, abolendo la storia e i suoi effetti, la visione di Müller non è poi cosi lontana dalle intenzioni di Wagner: anche se sul piano drammaturgico e musicale la concentrazione su un unico punto di fuga – una specie di buco nero dell’esistenza – allenta molti nessi e offusca le altre prospettive.
Così il canto finale di Isolde è speculare alla vertigine che 1’attanaglia all’inizio: di quell’angoscia mortale, la liberazione senza trasfigurazione. Anche scenicamente questi due momenti di un periplo senza speranza, vuoto di azione, si identificano nella fissità dei gesti, nel blocco tutto interiore dell’emozione; si ha quasi 1’impressione che i personaggi – come dire? – siano costretti li da una condanna eterna, a reinterpretare se stessi e la loro vicenda in una tragica liturgia del nulla: non già cantanti con una voce e un aspetto (Waltraud Meier, Siegfried Jerusalem, Ute Priew, Falk Struckmann, John Tomlinson) ma spiriti ingombranti che s’insinuano nella coscienza, e ci fanno ricordare e trasalire.
Daniel Barenboim deve invece dirigere una partitura ch’e tutta scritta e definita nei suoi nessi e nelle sue prospettive, ma comprende che 1’impostazione di Müller non può non incidere anche sulla musica. Nel primo atto tenta, dilatando i tempi, di dare 1’idea di una attesa che sospende 1’ansia con una presa di distanza non solo formale, concettualmente risolta con una inquieta immobilità del respiro sinfonico, da bonaccia tra tempeste cosmiche. Ma non è raffreddando un poco la tempesta che si giunge al gelo. Dal secondo atto in poi accresce invece la tensione con vampe sempre più avvolgenti, accelerando anche i tempi: ed è sorprendente sentirsi scivolare addosso, mentre la temperatura della musica vertiginosamente sale, proprio una sensazione di progressivo congelamento, che da ultimo assomiglia a quell’ardore febbrile che precede il rigor mortis. Ebbrezza ed estasi, depressione ed estremo raziocinio congiunti nella glaciazione, in una specie di presocratica totalità della conoscenza. E questo, Tristan und Isolde? Forse no. Ma per me, il fatto dell’estate è stato questo, e nel cercar di raccontarlo, scampato al seppellimento, non sono sicuro di non essere un po’ impazzito.
Musica Viva, n. 10-11– anno XVII