Opera essenzialmente di cantanti, se non di puro belcanto, Lucia di Lammermoor ha potuto contare nella sua storia interpretativa anche su presenze direttoriali di rilievo. Ciò si spiega con il fatto che fra tutti i lavori di genere serio di Donizetti è quella che meglio si offre a un contributo non di mero supporto o accompagnamento al canto, ma consente anche di tendere un arco musicale e drammaturgico di ampio respiro tragico anche in assenza di veri e propri squarci sinfonici. La peculiarità di Lucia sta nel suo essere melodramma romantico a tutto tondo: di esso quasi un emblema che travalica lo specifico idioma nazionale per rendersi universale. Due elementi fondamentali la caratterizzano: la continuità dell’ispirazione musicale e un contesto vocale che, seppur pronunciato, non indulge mai, o quasi mai, a facilonerie e convenzionalismi. Lo sfondo orchestrale mantiene sempre, sia nelle arie sia nei concertati, un forte spessore, un alto grado di definizione espressiva, toccando nei culmini drammatici – come l’imponente sestetto o la scena finale dell’opera – momenti di intensa e quasi sfrenata teatralità.
Si dovette tuttavia attendere la novecentesca “Donizetti Renaissance” perché anche Lucia di Lammermoor, immortalata dai nomi leggendari dei cantanti che l’avevano resa celebre nell’Ottocento, divenisse oggetto di più esaustiva e globale considerazione. E in ciò ebbero la loro parte non secondaria i direttori d’orchestra che si avvicinarono con spirito nuovo alla partitura. Nomi come quelli di Lorenzo Molajoli, Ugo Tansini, Pietro Cimara, Guido Picco, per fermarsi a ciò di cui ci resta testimonianza anche discografica (e vi mancano figure importanti: Arturo Toscanini e Vittorio Gui, per esempio), testimoniano lo sforzo e l’ambizione, non sempre riusciti, di sottrarre Lucia alla mera vetrina nella quale erano esposte voci di primissimo piano, come la Captsir, la Pagliughi e la Pons, Malipiero e Tagliavini. Fu però agli inizi degli anni Cinquanta che l’opera conobbe il suo primo periodo di vero splendore moderno, grazie all’interpretazione storica di Maria Callas, che aveva peraltro al suo fianco cantanti del calibro di Giuseppe Di Stefano, Tito Gobbi e il giovane Rolando Panerai. Maggio Musicale Fiorentino e Scala si divisero gli onori del suo rilancio in grande; il quale però non sarebbe stato tale senza la presenza di due direttori tra loro assai diversi, ma entrambi dotati di grande personalità: Tullio Serafin e Herbert von Karajan.
Lucia, una e due
Serafin, a cui si deve tra i molti meriti anche quello della scoperta e della crescita artistica di Maria Callas, ci ha lasciato un’interpretazione di Lucia che può essere considerata sotto molti aspetti paradigmatica: fosca nelle tinte ma controllata negli equilibri, tesa, incalzante, efficacissima teatralmente (ecco il vero uomo di teatro mai abbastanza rimpianto), praticamente perfetta nell’arte dell’accompagnamento. Che poi avesse a disposizione cantanti che avrebbero rivoluzionato un certo modo d’intendere quest’opera (con i tanti pregi e i pochi difetti annessi), nulla toglie, anzi accresce il valore della sua visione complessiva, compiuta e risolta fin nei dettagli. Anche Karajan si ritrovò, se possibile a un grado ancora più alto di drasticità, a confrontarsi con il mito della Callas, ma ne trasse conseguenze diverse. Il famoso spettacolo scaligero del 1954, che Karajan guidò anche in qualità di regista, portato subito dopo in tournée con gli stessi interpreti (Callas, Di Stefano, Panerai) all’Opera di Vienna e di Berlino, segnò un momento epocale nella rivalutazione di Lucia, che fece così il suo ingresso trionfale nel repertorio dei teatri tedeschi, dopo aver contato su una già lunga tradizione favorevole in quelli americani. Sarebbe tuttavia errato attendersi da questi documenti che ci sono stati fonograficamente tramandati il Karajan che avremmo conosciuto in seguito anche nel melodramma italiano, segnatamente verdiano. Non bisogna dimenticare che Karajan, in quegli anni, era ancora un giovane Kapellmeister, senz’altro di genio ma non ancora pienamente espanso come artista d’inconfondibile individualità. Anch’egli si affida dunque alla solida tradizione di scuola tedesca, peraltro illuminata e portata letteralmente a rimorchio verso nuovi esiti dal formidabile istinto della Callas, e mostra semmai di prediligere, talvolta anche a scapito dell’omogeneità, una narrazione nel complesso più liricheggiante e morbida, distesa nei tempi, temperata e sfumata nelle intensità e nelle dinamiche (il suono, per quel che si può capire, doveva essere già tendente al raffinato e al bello), ma accesa incomparabilmente al cospetto delle atmosfere più immaginose e poetiche (in una parola romantiche, ma di un romanticismo più tedesco, notturno, quasi schumanniano) della partitura: valga per tutti l’uragano e soprattutto la meravigliosa introduzione all’ultimo quadro. Il clima strumentale della grande scena della pazzia rimane invece stranamente freddo, quasi distante o svagato, in contrasto con le sublimi acrobazie della Maria. Insomma, la mano di Karajan c’è, e non è che non si veda, pur rimanendo il suo un gesto non ancora perentoriamente e completamente affermato.
Mestiere con la maiuscola
Da Serafin e da Karajan in nuce si possono per comodità far discendere due categorie di direttori che vedono Lucia di Lammermoor da osservatori diversi: quella dei sagaci uomini di teatro che, in virtù del loro comprovato mestiere più o meno sostenuto dal talento dei musicisti di razza, operarono nel solco della tradizione senza pretendere di più, e quelli che invece si imposero di incidere con maggior determinazione sul tessuto drammatico e musicale della partitura, dandone un’interpretazione personale, anche rischiosamente innovativa. Premesso che tutti hanno dovuto comunque fare i conti con i valori vocali di cui via via disponevano (giacché, in altri termini, Lucia non è opera a cui bastino le buone od ottime intenzioni dei direttori d’orchestra), va precisato che non sempre, in questo caso specifico, i secondi sono da preferire incondizionatamente ai primi. Appartengono ai primi più che oneste, talvolta onestissime figure come Francesco Molinari Pradelli, lo specialista del Metropolitan Fausto Cleva, John Pritchard, Silvio Varviso, Nicola Rescigno e soprattutto Giuseppe Patanè, teatralmente infallibile, e Richard Bonynge, esperto e abile come nessuno nel mettere nella luce migliore le doti della Lucia anti-callasiana per eccellenza, la divina Joan Sutherland, nella vita sua moglie. Proprio Bonynge, che di questo gruppo può essere preso a modello anche per la frequenza con cui ha condotto ripetutamente l’opera in teatro, sta a dimostrare come Lucia si giovi non tanto di una personalità direttoriale estemporanea, quanto di una guida che sappia tenere tempi logici ed elastici, alternare le atmosfere corrusche a quelle ovattate con la giusta differenziazione, individuare un clima generale senza sacrificare il pathos interno a ciascuna scena, accompagnare non con discrezione, bensì con equilibrio: requisiti certo difficili da riassumere, ma fondamentali alla riuscita.
E Mehta fa cilecca
E veniamo alla schiera degli “innovativi”. I cui risultati ci sembra vadano dal pessimo al sommo, con un’escursione estrema che non si trova mai nei cosiddetti “mestieranti”. Che non basti essere un conclamato grande direttore per venire a capo di Lucia lo provano inconfutabilmente (e qui parliamo per esperienza d’ascolto diretta) Georges Prêtre e Zubin Mehta (ai quali si potrebbe aggiungere la fiacca incisione Rca con i complessi dell’Opera di Roma di Erich Leinsdorf, peraltro penalizzata da un cast assurdo). Soprattutto Mehta (Firenze 1996) deluse alla grande con una direzione generica e sfilacciata, quasi scostante, rigida e sussiegosa al tempo stesso, oltre che stilisticamente inaccettabile (acuti tenuti, omissione dei “da capo”, insomma tutte le brutte abitudini di una routine primitiva, che si credeva dimenticata). Quanto a Prêtre, i suoi languori e le sue estenuazioni da un lato, le improvvise accelerazioni e turbolenze dall’altro non solo facevano perdere il filo del discorso, ma accentuavano anche, ad onta del virtuosismo magistrale con cui erano in sé realizzate, la discrepanza tra i momenti di più alta ispirazione e quelli di più consueta, inerme convenzione.
Gli apocalittici
Claudio Abbado diresse Lucia di Lammermoor alla Scala il 7 dicembre 1967, per l’inaugurazione della stagione, e fu una serata per molti versi memorabile. Renata Scotto, una delle migliori Lucie di tutti i tempi, assicurò, accanto a Gianni Raimondi, il peso vocale necessario, anche a costo di snaturare un po’ la sua impostazione squisitamente lirica per venire incontro alle richieste del direttore. Il quale puntò tutto o quasi su una visione cupa, tragica, funebre e al tempo stesso appassionata e vibrante, di sconvolgente mestizia, realizzata però “alla Abbado”: con una profondità, una meticolosità e una coerenza supreme, in linea con il bellissimo, ispirato allestimento crepuscolare di Pizzi e De Lullo. Di Lucia Abbado seppe cogliere, con una direzione serrata e intensa e insieme morbida, il rapporto fra la tensione interna dei personaggi e la tensione di un ambiente notturno fatto di mistero e di terrore, l’ineludibile, bruciante dolore dei sentimenti espressi in melodie soavi e ornate di purezza lirica, insomma l’eruzione controllata di spazi investiti da passioni esasperate e tuttavia anelanti alla bellezza, alla riconciliazione. Indimenticabile.
Per quanto confrontabile solo sulla base della registrazione, l’unica edizione di Lucia che possa in qualche modo reggere il confronto con quelle dei Serafin, di Karajan e di Abbado e sotto qualche aspetto addirittura superarle è quella diretta da Thomas Schippers, della cui prematura scomparsa non si finirà mai di portare il rimpianto. Ardita e leggera potrebbe sembrare la scelta di Beverly Sills come protagonista (ma accanto a lei ci sono gli straordinari Bergonzi e Cappuccilli); invece essa si rivela vincente. La capacità di Schippers di ridare il clima lunare (ma di una luna offuscata da nubi) di un immaginario romantico fantasioso e poetico, quasi sognante, è stupefacente, letteralmente da brivido; il senso di malinconia lacerata che intride un che di disperazione sottesa si scioglie in un canto di dolcezza sconfinata, estatica: mai si è udito un “Verranno a te sull’aure” così attonito e straniato. Ma Schippers non si rivela soltanto un interprete tanto sensibile quanto assolutamente personale. L’attenzione prestata ai più minuti dettagli e incisi strumentali, quasi li scoprissimo per la prima volta, non compromette la tenuta dei grandiosi assieme, dell’atmosfera complessiva, cui è impresso il ritmo fatale, ora allargato e pensoso, ora folgorante e rabbioso, di una ballata romantica catapultata nel vivo di una travolgente teatralità. Poche altre volte Lucia di Lammermoor si è rivelata come con lui il capolavoro simbolico dell’Ottocento romantico italiano riverberato su prospettive europee.
I direttori delle giovani generazioni continuano a subire il fascino di Lucia, forti di una tradizione consolidata e di illustri esempi del passato, ma faticano a trovare una linea interpretativa altrettanto personale. Li ostacola senza dubbio l’attuale povertà di voci in grado di reggere il confronto con le primedonne di un tempo, ma forse la loro anonimità dipende anche da una condizione generale mutata, nella quale opere come questa finiscono per essere, o sembrare, inattuali, se non irrecuperabili. Di tanto è cresciuta la consapevolezza tecnica e storica da renderci, al cospetto dell’autentica natura del melodramma del primo Ottocento, immaturi e impotenti. Così, forse, con Lucia se ne va una parte di noi stessi, il sogno meraviglioso di un incantamento estremo, bellissimo da ricordare, difficile da far rivivere.