Elisabetta» è tornata al San Carlo dove debuttò
Napoli – Rappresentata il 4 ottobre 1815, Elisabetta regina d’Inghilterra è la prima opera scritta da Gioachino Rossini per il San Carlo, poco dopo la nomina a direttore della musica dei Reali Teatri di Napoli. Rossini aveva allora ventitré anni, era un compositore in ascesa, con alle spalle almeno due successi importanti, nell’opera seria (Tancredi) e in quella buffa (L’italiana in Algeri). Era chiaro che quell’opera per il San Carlo rappresentava una svolta nella sua carriera, e lo poneva di fronte a un impegno non facile. Giacché si trattava non tanto, o non solo, di seguire la propria vocazione, di confermare le tendenze e le qualità già apparse nel suo teatro, ma di confrontarsi con una tradizione di alto livello con la precisa ambizione di diventarne il legittimo erede.
Elisabetta è dunque programmaticamente un’opera dimostrativa. Il fatto che Rossini vi riutilizzasse brani musicali presi per intero da opere precedenti (tra cui la Sinfonia, proveniente dall’Aureliano in Palmira e di lì a poco riproposta ancora nel Barbiere di Siviglia, a conferma di una strategia composiva geniale), ha un duplice significato: da una parte indica che Rossini voleva andar sul sicuro, sfruttare le sue esperienze per presentarsi con l’intero bagaglio della sua cultura in campo teatrale; dall’altra suggerisce che l’accento doveva essere messo non tanto sull’invenzione quanto sulla elaborazione, al fine di creare una drammaturgia intessuta di convenzioni e di nuovi, consapevoli sviluppi soprattutto nel rapporto fra canto e orchestra, fra parti solistiche e d’insieme.
Nel presentare Elisabetta regina d’Inghilterra come opera inaugurale della stagione (per l’apertura delle celebrazioni dell’ormai incombente bicentenario della nascita di Rossini) il San Carlo non solo ha adeguatamente ricordato una pagina importante della sua storia ma ha anche offerto un contributo alla riflessione, che occuperà gran parte dell’anno prossimo, sui nostri rapporti con Rossini. La scelta di Alberto Zedda era anzitutto una garanzia di correttezza e di attendibilità testuale. Zedda non è direttore che si imponga con speciale profondità nella resa della partitura, ma è musicista serio e preparato; con molta cura e sensibilità ha portato l’orchestra del San Carlo (e il coro istruito da Giacomo Maggiore) a dare il meglio delle loro possibilità: che rimangono comunque limitate da una cronica debolezza sia nello spessore sia nello smalto. E all’intenzione di voler prima di tutto raccontare l’opera, senza stravolgerla, si è uniformato anche l’allestimento elegantemente firmato da Enrico Job, piú efficace nelle scene che nella conduzione della regia.
Alti e bassi hanno contraddistinto la prestazione della compagnia di canto.
La notevole prestanza vocale di Chris Merritt (Leicester) è insidiata da piú di un segno d’usura, e ciò lo porta a forzare innaturalmente e a uscire talvolta dal controllo del gusto. Al contrario di Rockwell Blake (Norfolk), la cui ammirevole proprietà stilistica deve però fare i conti con una voce non particolarmente attraente sotto il profilo squisitamente belcantistico. Anna Caterina Antonacci (Elisabetta) si colloca in una via di mezzo: molto stile e molta cura nel fraseggio, mezzi senza dubbio di prim’ordine uniti a una convincente presenza scenica, ma non ancora sostenuti dalla maturità necessaria per affrontare personaggi di questa statura; di qui nascevano certe difficoltà di intonazione soprattutto nelle agilità, che la Antonacci mostrava chiaramente di possedere mentalmente ma di non riuscire sempre a realizzare in modo compiuto. Sumi Jo ha cantato la parte di Matilde senza brillare, ma correttamente; i ruoli di sostegno erano affidati a Serenella Pasqualini ed Enrico Facini.
«Elisabetta regina d’Inghilterra» di Rossini al San Carlo di Napoli (repliche domani, 15, 17,19, 21e 22 dicembre)
da “”Il Giornale””